IL DOMINIO DEL DRAGO
di Carlo Martinis

L’episodio "Il dominio del drago" è uno di quelli che lasciano maggior impressione nella memoria di noi appassionati, anche se quasi mai viene annoverato fra quelli migliori. Eppure ritengo che abbia una trama coinvolgente e dialoghi interessanti: apparentemente il suo punto debole risiede nella concessione a qualche immagine orrorifica, mal digerita da certi "puristi" della fantascienza (quelli per i quali il miglior film di fantascienza mai realizzato è "2001: odissea nello spazio"), e nella presenza di alcune ingenuità realizzative (diciamo che il mostro tentacolare non è proprio un capolavoro: ben altro effetto provocherà, di lì a poco, la creatura di "Alien").

Tuttavia, se a un primo giudizio i particolari possono risultare risibili, a un’analisi più attenta e dopo diverse visioni l’intero episodio potrà apparire in tutta la sua raffinatezza di contenuti.

Si noti innanzitutto il modo in cui il solito realismo dell’ambientazione, delle situazioni, dei dialoghi (col loro riferimento alle difficoltà dei viaggi spaziali, ad es.) venga "perturbato" da interferenze provocate dal mondo del mito (il drago, custode di un cimitero di astronavi). Si pensi ancora al conflitto tra i personaggi: Russell contro Koenig-Bergman (la dottoressa, forte della sua razionalità scientifica, valuta Toni Cellini un isterico incompetente, mentre Koenig e il professore non rifiutano a priori spiegazioni "irrazionali" che motivino il fallimento della missione Ultra) e poi Toni Cellini contro il Drago: rivisitazione di un mito, questa, capace di far riflettere sui limiti della razionalità e dell’uomo; rivisitazione non ingenua, ma con uno sguardo alla "psicologia del profondo" (Toni Cellini è un mitomane: si faccia attenzione all’arredamento del suo appartamento su Alpha: lance, accette, trofei e dipinti esotici...): il cimitero di astronavi (il dominio del drago) che inspiegabilmente si ritrova in prossimità della luna vagante mi appare infatti come simbolo dell’inconscio, diciamo un’inconscio collettivo: ecco perché alla fine la voce narrante di Helena Russell dubita della reale morte del drago, del quale le strumentazioni di bordo non avevano mai registrato la vita: come si può uccidere ciò che non ha vita? Come si può uccidere il mito?

Devo ammettere che questa serie televisiva (mi riferisco, ovviamente, solo alla prima delle due serie di "Spazio 1999") mi si presenta sempre più nella sua qualità: non solo impeccabili effetti speciali ma anche storie intelligenti, perché capaci di far riflettere; inoltre un repertorio musicale e di effetti sonori senza confronto (cosa che meriterebbe un saggio a parte). Ne "Il dominio del drago" in particolare, ascoltiamo un autentico luogo comune musicale, l’"adagio" di Albinoni, che sostituisce quasi completamente i pezzi di Barry Gray, conservandone però il passo tragico e solenne.

Si è detto prima della perplessità che suscita l’ingenua realizzazione del drago, il suo "effetto": ma la sua "causa" non dimora forse nell’ingenuo immaginario infantile di una volta, popolato di mostri di cartapesta?

Perché non intendere la messinscena de "Il dominio del drago" come espressione metalinguistica del conflitto tra vecchio e nuovo "cinema"? O più semplicemente interpretarla come espressione della contraddizione "filosofica" tra il "sentire" e il "pensare", tra il sentimento e la ragione?

Esagerazioni forse, ma davvero l’interpretazione non finirebbe mai: quale miglior prova della bontà di una cosa se non la sua apertura a sempre nuove interpretazioni? E "Spazio 1999" è proprio così, almeno per chi lo ama: un’opera classica, come una sinfonia o una tragedia shakespeariana, e con sempre nuove cose da dire, inattuale nella sua costante attualità.