Adagio

un racconto di: Michele Tetro
impaginazione e grafica: Marco Vittorini

Nota:
Il racconto di H. P. Lovecraft cui si fa riferimento è:
"L'Abitatore del Buio",
in "Tutti i racconti 1931-1936"
Oscar Mondadori, 1992.

      

 

  

Non ti crederanno. Non ti crederanno mai. Hai fallito, questo solo importerà loro. Hai fallito la tua missione. La missione più importante del genere umano. Persa la nave, perso l'equipaggio... e ti porti indietro una storia assurda. Io per primo, io per primo non potrei crederci, ascoltandola. Chi può credere ad una cosa del genere? Le prove... nessuna prova. La prova era nei miei occhi. E non mi hanno creduto. Tu sei vivo, sei stato un eroe poiché sei sopravvissuto al ritorno, un fatto eccezionale ed incredibile già di per sé. Ma hai raccontato quella storia. A tutto il mondo. Hai posto fine al programma di esplorazione spaziale esterna. Fallimento. Disastro. La quarta e più importante missione spaziale con equipaggio, dispersa come le altre tre. Hai chiuso, e non solo tu. Sei solo. Dovevi mentire! Dovevi assumerti la colpa della catastrofe! Ammettere che si era trattato di un tuo errore... decompressione improvvisa durante l'attracco, equipaggio ucciso. Avresti pagato solo tu e il programma spaziale non sarebbe stato cancellato. No. No, non potevo farlo, perché lui è vero, esiste, non è un parto della mia mente malata... ed è ancora là. Dietro al pianeta. Nella Sonda Ultra. È là e aspetta... in qualche modo io tornerò e lo affronterò. Lo affronterò!

Cominciava sempre così.
Sempre, puntuale ogni notte. Come un film tridimensionale, di cui lui era protagonista. Un film da cui era impossibile sfuggire, andava visto e vissuto fino alla fine. Invidiava i primi astronauti degli anni Sessanta: specialisti di volo, piloti eccezionali privi di fantasia, refrattari a tutto ciò che li allontanasse dal mero dato tecnico. Ma lui era diverso: grande atleta amatoriale, poeta, il migliore astronauta della sua generazione e degli anni Novanta. Aveva fantasia ed ora questo costituiva un grave problema. Ma ormai tutto era finito. Restava solo quell'incubo ripetitivo, onnipresente. Quell'incubo che lo attanagliava violentemente una volta chiusi gli occhi ma che per uno strano caso non lo debilitava o indeboliva o atterriva... Stranamente, gli dava più forza, lo corazzava interiormente. Non era un incubo da cui volersi allontanare in fuga: al contrario, voleva andargli incontro, affrontarlo una volta per tutte e porvi fine. Per quanto irrazionale e folle potesse essere un pensiero del genere (ma tutta la sua storia era irrazionale e folle), egli credeva che presto, un giorno, gli sarebbe stata resa giustizia. Avrebbe finalmente provato la verità delle sue parole, anche se ora l'intera faccenda sembrava essere caduta nel dimenticatoio, avrebbe rivisto quell'orrore davanti a sé, lo avrebbe combattuto per la seconda volta. Lo avrebbe vinto, distrutto... o sarebbe morto nel tentativo.

Lo affronterò. Lo distruggerò. Hai annientato la mia vita. Hai ucciso i miei compagni. Ed ora sei dentro di me, nella mia mente. Ti conoscevo, oh sì, ti conoscevo sin da ragazzo, quando lessi quel racconto di Lovecraft che mi impressionò e quell'immagine terrificante mi rimase scolpita nella mente: "Yog-Sothoth, l'occhio ardente dai molti bulbi". Sei tu. E ti trovi laggiù, oltre Plutone, proprio come disse lo scrittore di Providence...
L'occhio ardente dai molti bulbi.
L'occhio ardente...

La prima immagine era una sfera blu cobalto, con grandi macchie rosse. Il pianeta, Ultra, perso nell'infinito vuoto oltre il Sistema Solare, quel pianeta impossibile scoperto dal grande scienziato Victor Bergman nel 1994, quel pianeta che aveva fornito dati inammissibili sulla sua natura. Un evento eccezionale, un mondo che sbucava all'improvviso ai confini esterni dell'universo locale, come sputato fuori da un'altra dimensione, da un altro continuum spaziotempo, strappato da chissà quale lontano reame fantastico ed inconoscibile.
Poi all'improvviso la sfera cambiava colore e si rimpiccioliva, si duplicava in due occhi dolci e scuri e lui vedeva il viso della donna, sorridente, sentiva il calore della sua presenza, ricordava la profondità del sentimento nato in quegli otto mesi di viaggio spaziale.

Monique, cherie... eri bellissima, quella volta che ti vidi assorta ed in silenzio guardare dall'oblò di sinistra della nave, presso la tua cuccetta, illuminata di una morbida luce azzurra. Che strano effetto, le stelle all'esterno che si riflettevano nei tuoi occhi castani. Per i primi tempi del viaggio non avevo che un solo pensiero: portare la Sonda Ultra laggiù, conquistare quel pianeta. Poi, gradualmente, ho sentito nascere qualcosa, qualcos'altro. Ricordo anche il momento, quando sei venuta in cabina portandomi per la prima volta il caffè... con la mezza zolletta di zucchero! Mi avevi visto prepararlo qualche tempo prima... Ero riluttante a lasciare la cabina di pilotaggio a Darwin, allo scoccare del suo turno, ma quando ho saputo che mi aspettavi, in fondo al modulo, e che avevi piacere a parlare assieme, mi scoprivo a guardare l'orologio incastrato tra gli strumenti con più impazienza, in attesa del cambio. Monique... avevi promesso di portarmi in quel locale francese che ti piaceva tanto, al nostro ritorno. Ma tu non sei tornata...

Ancor più repentinamente, lo sguardo intenso della dottoressa Monique Bouchere mutava in un'altra sequenza di immagini. Il castano scuro dei suoi occhi impallidiva, fondendosi in un'unica grande pupilla luminosa, accecante, bianca. Sentiva allora quello spaventoso urlo elettronico, avvertiva la furiosa raffica di vento maleodorante, il bruciore sulla pelle di sostanze catramose, semiliquide... aveva l'orribile ma veloce visione del cadavere di Monique Bouchere, ridotta ad una forma scarnificata ricoperta di melma nerastra che le penetrava in bocca, nelle cavità in cui un tempo avevano brillato i suoi occhi sereni, mentre scivolava accanto a due altre forme simili sul pavimento del modulo lordo di sozzura fumante...e poi vedeva i tentacoli mulinare tutt'intorno al ciclopico occhio luminoso e urlante.

L'occhio ardente dai molti bulbi!

Quando non si svegliava gridando (ma non di paura, piuttosto di rabbia, d'ira impotente dovuta alla frustrazione di non potere affrontare quell'orrore), coperto di sudore e tremante, le immagini del sogno che presto si sarebbe tramutato in un incubo lo riportavano più indietro, prima di quel 6 giugno 1996, data della partenza della Sonda Ultra, al momento cruciale ed in un certo modo anche infantile della scelta definitiva del comandante della missione. E rivedeva il viso dell'unica persona che era stata disposta a credere, nei limiti del possibile, alla sua terrificante avventura. Il suo più caro amico, un'astronauta forse addirittura più preparato di egli stesso, il cui nome gareggiava col suo nel mietere successi nella storia dell'astronautica: John Koenig, destinato, per volere della Dea Fortuna, a perdere il posto di comandante della Sonda Ultra e a restare a capo del Controllo Missione sulla Base Lunare Alpha.
Ricordava bene quel giorno: lui e Koenig si trovavano nell'alloggio del professor Victor Bergman, su Alpha, allora comandata dall'austero Anton Gorski, ex vice-Commissario della World Space Commission ed ex braccio destro della più alta autorità della medesima, l'Alto Commissario Dixon. Era la prima volta che i due astronauti vedevano di persona il celebre scienziato scopritore del pianeta Ultra (ma universalmente noto per meriti non meno importanti, in più campi del sapere), rimanendo favorevolmente colpiti dalla sua personalità affascinante, dall'intelligenza acuta e sempre pronta a nuove sollecitazioni, da quell'aspetto bonario e in un certo senso quasi paterno, molto distante dalla tipica figura di scienziato freddo e razionale sopra ogni cosa. Discutere col professor Bergman era un'esperienza unica, in cui accanto all'immediata risoluzione di questioni o domande poste veniva solleticato e stimolato tutto un ulteriore meccanismo di interrogativi, intrigante nel suo evolversi. Bergman parlò di come avesse scoperto Ultra, apparso all'improvviso nello spazio oltre-plutoniano, mentre in realtà egli era alla ricerca del vero decimo pianeta del Sistema Solare, da lui sempre sospettato e indagato. Ultra era comparso all'improvviso, come attraverso un gorgo, una deformazione spaziale, e probabilmente non sarebbe entrato nel gioco di forze gravitazionali attorno al Sole, scivolando presto nel vuoto cosmico. I primi dati rilevati erano pressoché pazzeschi: esistenza di una probabile atmosfera, cosa impossibile data la lontananza dal sole (da qualsiasi sole!), fattore che avrebbe causato il congelamento della medesima sulla superficie stessa del mondo, rilievi di gravità pari all'82% di quella terrestre e temperature straordinariamente miti (cosa che aveva subito posto in questione l'esistenza di un'atmosfera), un indice albedico straordinariamente luminoso nonostante la distanza dal Sole, quasi fosse dovuto a cause artificiali...
Ma il vero motivo della presenza sua e di John Koenig su Alpha era un altro. Decidere finalmente chi avrebbe comandato la Sonda Ultra, poiché ancora non era stato possibile (e forse non lo sarebbe stato mai) decretare chi fosse il migliore astronauta dei due. Bergman rivelò che neppure Gorski e Dixon erano stati in grado di valutare la cosa e che entrambi speravano che fossero proprio loro due a mettersi d'accordo e compiere la scelta. In quell'attimo di imbarazzo generale, John Koenig propose il classico lancio della monetina, sostituita in quel caso da un piatto e quadrato circuito stampato a due colori abbandonato sul tavolo da lavoro di Bergman.
"Va bene, Tony. Faremo così. Testa o croce, d'accordo? Il vincitore si prende la nave, il perdente avverte Gorski. Nero o giallo?"
"Nero".
Koenig lanciò il circuito, lo afferrò e lo rovesciò sul palmo della mano. Attese un istante: il braccio dalla manica arancione che su Alpha indicava l'appartenenza al corpo astronauti tremò lievemente. Poi scoprì l'improvvisata moneta: nero.
"Bene! Gli déi sanno chi tra noi è il migliore astronauta!", aveva esclamato il vincitore, sorridendo.
"E infatti hanno deciso per me, visto che il cervello migliore deve stare qui su Alpha. Ma avrei davvero voluto andare..." Koenig faceva palesemente uno sforzo per nascondere il rammarico.
"Dunque, la prendete così com'è?", chiese Bergman, esitante.
"Sì", soffiò Koenig, gettando con una smorfia il circuito, "Resto io".
Anthony "Tony" Cellini sarebbe stato il comandante della Missione Ultra e di lì a tre giorni avrebbe preso posto sulla gigantesca astronave, ancorata alla Stazione Orbitale Centauri.

Ultra, il pianeta più lontano, prenderne possesso e scoprire il suo segreto...
Una nave straordinaria, un viaggio senza inconvenienti...
Monique...
Il contatto, il cimitero di navi stellari oltre il pianeta...
L'occhio ardente dai molti bulbi...
Il Drago.
Il Nemico.

L'equipaggio della Sonda Ultra era formato da quattro elementi. Il comandante capitano Tony Cellini, l'astrofisico di bordo e secondo pilota dottor Darwin King, l'esperta di radiazioni dottoressa Juliet Mackie, la responsabile medica e psicologa dottoressa Monique Bouchere. Avevano salutato i numerosi Alphani, radunatisi nel corridoio antecedente la rampa di lancio, prima di imbarcarsi sull'Aquila che li avrebbe portati da Alpha a Centauri, dove erano attesi dal Commissario Dixon per il saluto ufficiale. Koenig e Bergman erano visibilmente commossi.
"John, senza rancore", aveva detto, commosso a sua volta, il capitano della Sonda all'amico e collega che restava, stringendogli calorosamente la mano.
"Non ti avrei lasciato andare, se non fossi stato più che sicuro che saresti stata la persona giusta".
"Non sarei andato, se non avessi saputo di contare su di te qui, al Controllo Missione".

Alle ore 12.00 del 6 giugno 1996 la gigantesca Sonda Ultra, precedentemente denominata Astro 9 secondo l'ufficiale nomenclatura delle spedizioni verso i pianeti esterni, si staccò dall'ormeggio della Stazione Centauri per il suo viaggio di otto mesi alla volta del pianeta Ultra. La fase di accelerazione sarebbe durata tre ore circa, portando la nave a circa tre milioni e mezzo di chilometri dalla Stazione e alla velocità massima di 325 chilometri al secondo, poi il motore Nerva sarebbe entrato in azione scagliando la Sonda nello spazio profondo. Il rientro era previsto per il 20 novembre 1997.
Fu un appuntamento mancato.

Otto mesi di navigazione, senza incontrare nessuna difficoltà, eccetto forse la noia. Ma l'equipaggio era stato scelto bene e non fu difficile affiatarci sempre più. Darwin era un'inesauribile fonte di barzellette e le due ragazze erano, ciascuna a modo suo, squisite. Juliet era più dinamica e meno facile agli entusiasmi, Monique di contro era dolcissima e sognatrice. Era stata lei a diffondere all'interno della Sonda Ultra le struggenti note dell'Adagio per archi e organo in G Minore di Albinoni, quella che fu la colonna sonora del nostro viaggio, musica davvero in grado di comunicare nel profondo del nostro animo. E ne avevo bisogno, poiché una parte della mia mente, nonostante il mio ottimismo, non riusciva a dimenticare gli insuccessi delle prime tre missioni Astro, disperse nel nulla: la Missione Uranus del 1986 guidata dal colonnello Jack Tanner, la scomparsa di Astro 7 comandata da Lee Russell, l'esperimento Rapido di Joseph Michael...

Con una sapiente regia, il film che era l'evolversi di un incubo tremendo offriva agli occhi della sua mente le sequenze più dolci e piacevoli del viaggio prima del terrore, il lento nascere dell'amore tra lui e Monique, i brevi momenti d'intimità al cambio dei turni, aventi come testimone il lontano luccichio delle stelle immote... poi, di colpo, dopo gli istanti di emozione dovuti alla prima osservazione a vista del pianeta Ultra, all'entrata in orbita attorno al pianeta che li avrebbe portati in volo sull'altra faccia, con relativa sospensione dei contatti con Alpha, quel segnale, captato dalle telesonde di bordo. Altro dato impossibile nella lunga serie di incongruenze legate ad Ultra: decine di corpuscoli metallici ammassati in orbita alta, stazionari e completamente inerti.
"Darwin", aveva chiamato in sordina l'astrofisico, che lo raggiunse in cabina di pilotaggio, "Vorrei un tuo parere su questo fenomeno..."
"Asteroidi?", azzardò King, dopo aver studiato i segnali della telesonda sullo schermo.
"Asteroidi metallici? Non credo proprio, sono immobili... Ci stiamo andando dritti incontro. Deceleriamo quanto basta per dare una esaustiva occhiata"
"D'accordo, Tony..." King esitò, fissando il capitano, "Potrebbero essere... mezzi artificiali? Vita intelligente?"
"Lo scopriremo presto".

Astronavi! Erano astronavi! Di ogni foggia e dei più disparati livelli tecnologici! Incrociatori dalla stazza impressionante, piccoli carghi, moduli cilindrici, tronchi di cono assemblati in tutte le forme che sfidavano ogni capacità di comprensione umana! Non potevano appartenere ad una sola razza extraterrestre, le loro caratteristiche erano così eterogenee da far supporre l'esistenza di più tipologie biologiche dall'intelligenza e tecnologia diversa. Una fantastica flotta immobile nello spazio, quasi un colossale parcheggio cosmico per chissà quale straordinario convegno di tutte le popolazioni della galassia, come suggerì efficacemente Juliet. Ma l'idea che mi aveva subito colpito era un'altra, più inquietante... un cimitero spaziale. Mosche impigliate in una invisibile ragnatela... e un senso di pericolo serpeggiante. Certo quelle navi non potevano provenire da Ultra, da cui non ci veniva inviato alcun segnale indicante vita intelligente, ma da altrove e per qualche motivo erano finite tutte in orbita al pianeta. Navi fantasma, mute e sorde ai nostri tentativi di comunicazione. I sensori non registravano alcun segno di vita a bordo, su nessuna astronave, quasi che fossero state abbandonate alla rinfusa in orbita alta. Che ne era stato degli equipaggi? Non ero tranquillo... e ho preso le decisioni sbagliate.
Dixon aveva ragione. L'errore è stato mio, ma non nel senso che intendeva lui. Non dovevo permettere l'attracco a quel colossale ammasso di tubi e cilindri, uno dei mezzi più giganteschi di quel cimitero di navi, non prima di aver indagato ulteriormente, per quanto possibile. Ma una volta constatato coi sensori che l'interno dell'astronave aliena, a differenza delle altre, sembrava fornito di una miscela d'aria respirabile per l'essere umano, sebbene non nelle giuste proporzioni, e che la temperatura si aggirava sui ventotto gradi, mi sono lasciato prendere dalla foga della scoperta, spinto anche dall'entusiasmo del mio equipaggio.

"Attracchiamola, Tony", esclamò Darwin King, "Guarda, quella protuberanza sembra essere un portello d'accesso, un sistema di docking tra mezzi spaziali. Tentiamo di collegarci ad essa!"
"Non conosciamo il sistema di penetrare all'interno di quella nave. Potremmo non riuscire ad andare oltre la nostra camera di compensazione", obiettò il comandante.
"Proviamo ugualmente. A che servirebbe se no il meccanismo d'attracco universale Borges-Neill che abbiamo in dotazione? Juliet ha controllato l'ecoambiente interno, i dati sono confermati: pressione, atmosfera e temperatura tollerabili per il fisico umano. Non c'è neanche bisogno di indossare gli scafandri. Sembra non esservi alcun pericolo".
"Va bene. Iniziamo manovra di approccio. Darwin, estendi il raccordo telescopico della sonda. Creeremo perlomeno un passaggio che ci consenta di studiare i portelli di quella nave a distanza ravvicinata".

Il mio errore è stato essere ligio ai regolamenti di bordo, quindi di restare separato in cabina di pilotaggio dal modulo passeggeri, a portelli chiusi, durante le fasi di attracco. Dopo aver compiuto tutti i controlli che potevo eseguire, avrei dovuto raggiungere Darwin e le ragazze nel modulo, ed essere io il primo ad affrontare l'ignoto oltre i portelli della camera di compensazione. Ma il regolamento esigeva che il pilota restasse al suo posto, pronto ad agire di fronte ad ogni evenienza per salvare almeno tutti i dati di volo registrati nel computer della cabina di comando, che all'occorrenza poteva diventare una capsula di salvataggio. Non avevo neppure una visuale video di quanto stava per accadere nel modulo passeggeri. Potevo solo sentire le voci dei miei compagni. Quando le due navi furono unite e la condotta pressurizzata aprii i portelli della sonda, pronto a dirigermi nel modulo, e sentii la voce di King che riferiva, stupita, di come i portelli dell'astronave aliena si fossero spalancati automaticamente, poi vi furono strane interferenze e il grido delle ragazze...

L'urlo teso di Darwin King rimbombò nella cabina di pilotaggio della Sonda Ultra.
"Chiudi il portello, Tony!"
"Che succede?", Cellini eseguì prontamente l'ordine mentre rispondeva all'astrofisico, sigillando nuovamente il modulo dalla camera di compensazione.
"Vento, rumori, luce. Fa una strana impressione..."
L'altoparlante portò al capitano dei nuovi rumori, inidentificabili, terrificanti. Fece per accorrere nel modulo quando la voce strozzata di King lo bloccò.
"Chiudi i portelli posteriori! Chiudili, presto!"
Cellini si sporse sul pannello, che all'improvviso esplose in un mare di scintille. I circuiti elettrici e i servomeccanismi del modulo erano saltati con un crepitio acre.
"Darwin, circuiti principali fuori uso. Tenta col manuale!"
Dalla sezione posteriore della Sonda gli giunsero orrendi rumori amplificati, come un urlo elettronico, che si sovrappose alle grida di terrore di Juliet e Monique.
"Sto arrivando!" Cellini si gettò sui comandi, tentando di bypassare i circuiti saltati e di ovviare al guasto. Provò prima con la leva manuale, ma era grippata, e poi a mani nude, afferrando la svasatura dei pannelli, inutilmente. I portelli della cabina di pilotaggio restarono chiusi. Dall'altra parte Darwin King sembrava lottare contro una forza sconosciuta, Monique stava urlando all'impazzata, terrorizzata. La cacofonia crebbe, gettando nel panico e nella frenesia Cellini, alle prese con i componenti bruciati del quadro comandi.
"No, no...!", udì l'ultimo grido soffocato di King, un forte rumore in crescendo tra poderose raffiche sibilanti di vento e ancora le urla di Juliet e Monique. Poi, perfettamente riconoscibile, il sibilo ripetuto di una pistola laser in azione.
"Ho finito!" Il capitano reintrodusse con difficoltà i componenti del quadro al loro posto, graffiandosi le mani a sangue per la foga. Il sistema d'emergenza entrò in funzione, Cellini corse ai pannelli della cabina, azionandone l'apertura sul modulo passeggeri.

Un fotogramma che rimarrà raggelato per sempre nella mia mente. I pannelli scivolarono di lato ed io vidi quel che stava accadendo. Restai di sasso solo per qualche secondo, quel tanto che bastava affinché l'immagine davanti ai miei occhi si fissasse definitivamente nei miei pensieri. L'avrei contemplata in tutta la sua pienezza ed il suo orrore nei ricordi, solo molto tempo dopo. Sul fondo del modulo, tra i portelli posteriori che davano alla sala macchine, c'era il mostro: una corona di centinaia di tentacoli impazziti attorno ad un occhio luminescente, abbagliante, raffiche di vento caldissimo e pestilenziale, rumori elettronici, getti di liquido catramoso che sprizzavano ovunque. Sul pavimento imbrattato, due corpi la cui vita era stata spremuta via, risucchiata da oscene ventose incandescenti, cosparsi di pece nera, fumanti, atrofizzati. Alla mia sinistra Monique, aggrappata ad una rossa colonnina portante del modulo, la sua bianca uniforme insozzata di melma nerastra, ustionante, un tentacolo avvolto al collo... la creatura infernale si spingeva in avanti, facendo perno sui tentacoli avvolti alle colonnine della nave, avanzava verso di me... D'istinto afferrai il laser dalla rastrelliera e feci fuoco nella massa di pseudopodi, lanciandomi verso Monique, tentando di liberarla dalla presa. Potei solo afferrarla alle spalle, ma la forza dei tentacoli era tremenda... mi fu letteralmente strappata via. La vidi piombare nel folto di quella corona mostruosa di tentacoli vibranti, scivolare urlando davanti a quel satanico occhio e finire risucchiata al di sotto della creatura, in una bocca invisibile. 

Sparai nuovamente, ma il raggio si insaccò innocuo in quel mulinare di arti limacciosi. L'orifizio putrescente del mostro si spalancò, sputando il corpo scarnificato di Monique, che scivolo sul pavimento fin quasi ai miei piedi. Non poteva essere una donna, quella cosa fagocitata, bruciata, annerita... non poteva essere Monique... Il mostro si avvicinava, il suo urlo elettronico mi feriva i timpani. Mi voltai e corsi verso la cabina di pilotaggio. Per un istante provai una strana sensazione: l'impellente esigenza di voltarmi, fissare quell'occhio pulsante e gettarmi tra quelle fauci nerastre. Come se ricevessi un inderogabile ordine telepatico, ipnotico, insinuante... vinsi quella forza diabolica. Oltre il condotto stagno tentai di chiudere manualmente il portello della cabina. Due tentacoli s'intrufolarono nell'abitacolo, impedendo la chiusura dei battenti e spruzzando liquido ovunque. A ridosso dell'armadietto degli attrezzi che si era spalancato, afferrai un'accetta, solitamente usata per tagliare i grossi cavi idraulici in caso d'emergenza, e colpii ripetutamente i due grossi tentacoli mulinanti. Straordinariamente la lama d'acciaio sortì più effetto del laser. La creatura sembrò gridare dal dolore e gli arti si ritirarono nel modulo. Abbassai del tutto la leva manuale e il portello si chiuse ermeticamente. Dovevo fare una sola cosa... potevo fare solo una cosa. Mi legai saldamente alla poltroncina del pilota, sollevai il pannello di protezione dal sistema di Separazione Emergenza Modulo e tirai la leva. Subito udii i bulloni esplosivi che saltavano fare tremare la cabina e attraverso gli oblò triangolari davanti a me scorsi il cimitero di astronavi cominciare a ruotare su se stesso... ma in realtà era la capsula a ruotare, separata dal grande corpo della Sonda Ultra. Dalla tomba di Darwin King, Monique Bouchere e Juliet Mackie. Dall'antro del Mostro. Dal Dominio del Drago.

Tony Cellini escluse dalla sua mente tutto ciò di cui era stato testimone nel modulo passeggeri della Sonda Ultra. Lo fece con quel peculiare atteggiamento tipico degli astronauti, la cui lucidità mentale nello spazio può essere determinante nelle questioni più gravi. Ora doveva affrontare un problema che gli avrebbe richiesto ogni sua energia, mentale e fisica: sopravvivere nello spazio a bordo della sua fragile scialuppa di salvataggio. Febbrilmente, abbassando in sé il tasso di adrenalina e riconquistando l'equilibrio interiore, rimise in assetto la capsula rotolante nel vuoto, calcolò un'orbita più bassa attorno ad Ultra in modo da poter sfruttare l'effetto fionda gravitazionale del pianeta per poter essere rilanciato verso il Sole e la Terra, manovra che avrebbe ripetuto in prossimità di tutti i pianeti giganti, da Nettuno a Saturno a Giove... se fosse sopravvissuto tanto da raggiungerli. Se il potente motore Nerva della Sonda Ultra aveva avuto bisogno di otto mesi per raggiungere il pianeta, i piccoli razzi chimici della navetta di salvataggio avrebbero impiegato, salvo imprevisti, qualche anno... solo per avvicinarsi alla Terra, probabilmente con un cadavere a bordo. Un solo, infinitesimale errore di calcolo avrebbe portato ciò che restava della Sonda Ultra a perdersi nell'infinito. Una probabilità su un milione di farcela... per l'astronave. Molte meno per il suo solitario occupante.
Ma Anthony Cellini ce la fece, perché doveva farlo. Doveva avvertire la Terra del pericolo, doveva narrare la sua storia, la sua straordinaria storia che provava l'esistenza di molte razze intelligenti nel cosmo, doveva convincere l'opinione pubblica ad inviare un'altra astronave su Ultra per debellare la minaccia, per impadronirsi dei segreti di quella tecnologia orbitale abbandonata a se stessa. Doveva tornare per vendicarsi del mostro che aveva annientato il suo equipaggio.

L'occhio ardente dai molti bulbi...
Monique...
Ho fatto quanto potevo...
Sono sopravvissuto... Ho riportato la Sonda Ultra sulla Terra...
Sono il migliore astronauta...
Ho vinto i calcoli probabilistici che mi vedevano sconfitto, perso, inghiottito dall'universo...
Ma non riporto con me solo questa storia allucinante...
Lui, il mostro, è dentro di me, lo sento...
Quando ha fissato su di me il suo occhi ipnotico, inducendomi a voltarmi e a gettarmi tra le sue spire...
Mi richiama ad affrontarlo.
Non mi abbandonerà.
È il mio Nemico.
Ed io tornerò.
Ti distruggerò.
O morirò nel tentativo...

Per oltre un anno e mezzo la navetta di Tony Cellini solcò le distese dello spazio, con il suo pilota intento a calibrare gli strumenti, fare calcoli astrusi, riparare i danni, monitorare gli strumenti, razionare severamente cibo e acqua del Survival Pack, controllare costantemente il supporto vitale principale, ripetere le stesse operazioni ogni ora, riposarsi quando distrutto dalla fatica, riprendere tutto d'accapo per giorni e giorni che assomigliavano sempre ad un unico giorno, un unico lunghissimo giorno buio. Infinite stanze di tenebra ammiccanti di deboli baluginii... solo la musica di Albinoni lo aiutava a non perdere del tutto la testa, quell'Adagio che gli riportava alla mente il volto dolce di Monique Bouchere, un volto ora ridotto ad un informe massa bruciata di tessuti prosciugati di vita. Ma la sua immagine lo sostenne, assieme al desiderio di vendetta. Non poteva permettersi di pensare a quanto era accaduto, poiché ogni neurone della sua mente era occupato a tenere materialmente insieme la propria integrità e quella della navetta. Tony Cellini sopravvisse, vinse la grande incognita tutto intorno a lui, quelle tenebre silenziose che cercavano di aggredirlo e soffocarlo. Il suo corpo deperiva ma la mente restava lucida e affilata. Mancò all'appuntamento del 1997 con i suoi simili... ma riuscì a non mancare al successivo, un anno dopo.
Tony Cellini ebbe fortuna... poiché un solo uomo non si era scordato di lui, non aveva accettato il fallimento della Missione Ultra anche mesi dopo che la Commissione Mondiale Spazio aveva archiviato il suo caso. Quell'uomo era John Koenig, che si lanciava nel profondo dello spazio con il nuovo modello di Aquila a grande autonomia, seguendo la rotta della Sonda Ultra, alla ricerca vana di qualche segnale. E fu grazie ad uno di questi ostinati voli che la capsula, ormai priva di autonomia, fu avvistata alla deriva nel vuoto. Al suo interno, una volta che Koenig riuscì ad attraccarla, fu trovato un corpo emaciato, provato oltre ogni resistenza ma vivo...
"L'occhio ardente dai molti bulbi...", solo questo riusciva a mormorare la parvenza d'uomo riverso sui comandi.
Ma Tony Cellini era tornato dalla morte.

Non ti crederanno. Racconti una favola che risulta banale anche alle orecchie dei bambini. Il mostro tentacolato e putrescente che viene dallo spazio e distrugge gli astronauti... più facile credere a Babbo Natale. L'eroe Tony Cellini, novello Ulisse, che è riuscito in un'impresa impossibile, diventerà l'accusato Tony Cellini, causa del disastro della Missione Ultra. Non ti crederanno.
Ma devono credermi! La scatola nera confermerà il mio racconto con i suoi dati!

"John", disse il professor Victor Bergman, cercando di tranquillizzare un irato Koenig, nella sezione tecnica della Base Alpha, "La scatola nera non ha registrato altro che un contatto. Con cosa? Nulla prova che sia stata un'astronave. I dati sono inintelleggibili. Per quattro minuti c'è solo il vuoto... e qualcuno potrà pensare che siano stati alterati, forse dallo stesso Cellini."
"Perché avrebbe dovuto farlo?" sbottò Koenig.
"Dixon e la Commissione penseranno alla cosa più ovvia: per nascondere una grave mancanza da parte di Tony".
"Victor, è proprio questo che non posso credere! Mi rifiuto di crederlo!", gridò l'astronauta, esasperato.
"Una testa deve rotolare, John. E Tony è evidentemente fuori di sé, alterato psicologicamente. Abbiamo fallito. La Missione Ultra è stato un insuccesso... il quarto grave insuccesso della storia dell'astronautica. Non ne avremo più altre".

Nessuna evidenza fisica. Nessuna traccia che provi l'esistenza del mostro. Il liquido fuoriuscito dai suoi tentacoli è evaporato nel nulla, anche quello che credevo rappreso sulla mia uniforme. Nessun segno della sua presenza. Solo qualche danno al sistema elettrico della navetta... nient'altro. E la scatola nera non ha offerto alcuna prova. Non mi credono. Non appoggeranno un'altra missione. Bergman e Koenig si sono esposti fin troppo nel perorare la mia causa... inutilmente. Il rapporto medico finale della dottoressa Helena Russell, vedova di Lee Russell, è un'aperta condanna contro di me. Il profilo psicologico mi bolla come psicotico. Dixon chiuderà l'inchiesta nell'unica maniera possibile... dimenticare l'accaduto.

"La realtà delle avventure nello spazio è che sono terribilmente dispendiose", disse gravemente l'Alto Commissario Dixon, "Le possibilità a favore e i fondi ci sono di rado e noi dobbiamo sfruttare al meglio queste condizioni quando si verificano. Sono spiacente, ma devo rilevarvi tutti dalle vostre mansioni. Lei, Cellini, per sottoporsi ad ulteriori esami medici approfonditi, e voi due, Koenig e Bergman, affinché vi ricordiate entrambi per il futuro di tenere i piedi ben saldi a terra. È tutto".

"Capitano Cellini", esclamò rudemente la dottoressa Helena Russell, nella stanzetta d'ospedale dove era ricoverato il comandante della Sonda Ultra, "Cosa pretende che dobbiamo credere?"

Voglio che voi tutti, Koenig, Bergman, Dixon, tutti voi vi sbarazziate dei vostri criteri di giudizio su quanto è reale e quanto non lo è! Abbandonate la ragione! Non serve più! Dovete credere che io, Tony Cellini, sono stato faccia a faccia con quel drago. L'ho combattuto con le mie mani e sono sopravvissuto! Questo è quel che dovete credere!

"Il caso è chiuso. Ora abbiamo altri problemi da affrontare: l'inquinamento da scorie atomiche..."

Vi prego. Credetemi.

Il sogno proseguiva, le immagini si affastellavano. Coerente fino a questo punto, l'incubo tornava a sequenze non lineari e Cellini si ritrovava sulla Sonda Ultra, in prossimità del pianeta, lottava col mostro tentando di salvare Monique, cercava di affrontarlo nel lunghi sogni ad occhi aperti avvenuti sulla capsula di salvataggio. Ma neppure l'apocalittica esplosione, dovuta alla combustione delle scorie atomiche sepolte nel sottosuolo lunare, che aveva scagliato la Luna fuori dalla sua orbita il 13 settembre 1999, il più colossale disastro della storia umana, aveva potuto cancellare quell'incubo, sostituirsi ad esso. Sulla Base Lunare Alpha, ora comandata da John Koenig, richiamato in servizio per affrontare due grandi problematiche confluite drammaticamente in una sola (l'esplorazione del pianeta Meta, il decimo mondo del Sistema Solare finalmente identificato da Victor Bergman, e la misteriosa malattia che decimava gli astronauti degli equipaggi in addestramento sul satellite), i superstiti dovettero affrontare una strenua lotta per la sopravvivenza di fronte alle incognite del cosmo. Per uno strano caso molti dei protagonisti dell'inchiesta Ultra si trovavano sulla Base al momento del cataclisma: Koenig, Bergman, la dottoressa Russell e lo stesso Cellini, addetto al corpo astronautico sotto la guida del capitano Alan Carter. Un nuovo Alto Commissario, Gerald Simmonds, aveva sostituito Dixon, travolto dallo scandalo Ultra, e anch'egli, sfortunatamente, si trovava su Alpha al momento del distacco. L'odissea degli Alphani nello spazio, alla ricerca di un mondo su cui tornare a vivere, aveva cancellato da ogni mente il disastro della Missione Ultra... tranne che da una.

L'occhio ardente dai molti bulbi...
Il Mostro annidato nel cimitero di astronavi...
Monique...
Darwin, Juliet... io vi vendicherò!
Vento infernale, cacofonia in crescendo, tentacoli e ventose...
Vedo quella spirale di luce, sento il suo grido spaventoso...
Davanti a me il suo occhio ipnotico, che spinge a farsi avanti come vittime sacrificali...
Non funzionerà con me. Ti troverò. Sarò al tuo cospetto, nel tuo regno, nel tuo dominio. Avrò con me solo la mia accetta, acciaio temprato, e ti aspetterò...

Anthony Cellini si svegliò con un urlo, più simile ad un ruggito.
Col fiato mozzo si guardò intorno, sudato, tremante. Era nel suo alloggio su Alpha, ottocentonovanta giorno dopo l'abbandono dell'orbita terrestre. Le luci erano spente e l'ambiente era soffusamente illuminato solo dalle fioche spie della colonnina dell'intervideo. Cellini si alzò, circospetto, guardandosi attorno. Sentiva ancora un'eco proveniente dal sogno, un'eco simile ad un rumore elettronico, che si allontanava. Riprese fiato, tranquillizzandosi. Ad ogni risveglio solitamente si sentiva male, quasi fosse stato defraudato nel sogno dell'opportunità di colpire il suo nemico. Alle pareti dell'alloggio v'erano dei quadri d'ambientazione africana e diverse panoplie di lance, coltelli, asce, picche, antichi fucili ad avancarica. Aveva sempre avuto una curiosa passione per la caccia grossa nel Continente Nero. Afferrò una scure africana, serrando la mano sul manico di legno coperto di cuoio. Si sentì stranamente appagato da quel contatto e avvertì un senso di rilassatezza nascergli nel profondo. Cosa c'era di diverso, in quel risveglio? Di così... soddisfacente? Solo una cosa poteva arrecargli soddisfazione... e accadeva solo nei sogni. Accese il registratore, e in sottofondo s'udirono le note dell'Adagio di Abinoni. Si avvicinò agli oblò rettangolari che si affacciavano sul cosmo infinito. Fuori, un mare di stelle, un lontano anemone lattiginoso, una nebulosa fatta di una trama sottile e trasparente. Cellini rimase in contemplazione dell'asterismo cosmico. Stelle ovunque, come quelle che si riflettevano negli occhi castani di Monique...
E poi, all'improvviso, seppe.
Restò in silenzio e registrò in sé quel che le tenebre gli stavano comunicando. Era un messaggio personale, a lui solo diretto.

Sì, ora lo so, ne ho la certezza.
Sei lì fuori.
Mi stai aspettando.
Per qualche motivo che non ha alcuna importanza conoscere,
tu sei laggiù, nel tuo regno, e aspetti colui che è riuscito a sfuggirti. Lontani anni-luce da Ultra... ma tu sei lì!
Al centro del tuo reame di morte, tra le astronavi abbandonate, il luogo del nostro appuntamento.
Monique,
cherie, sto tornando da te, amore mio...

Anthony Cellini fissò il cosmo insondabile, sollevò la scure e appoggiò la fredda lama alla sua fronte. Sorrise, senza distogliere lo sguardo dal profondo della notte.

Ti affronterò nel tuo dominio.
Ti annienterò o morirò nel tentativo.
Aspettami.
Sto arrivando.

Fine
Racconto © 2001 di Michele Tetro. Pubblicato con il consenso dell'autore.
  

Primo premio
al concorso letterario indetto dal club "MoonBase '99"
nel corso della convention "MoonBound Three", Modena, Ottobre 2002.

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