Condizione necessaria:
Fiducia

 un racconto di: Maria Conversano
impaginazione e grafica: Marco Vittorini

Nota:
L'episodio si colloca temporalmente subito dopo le vicende
narrate in "Rotta di collisione".

  

 

 

Prologo

John Koenig si guardò intorno, pensieroso. Il personale della centrale comandi era intento, frettolosamente, nello spegnere gli ultimi fuochi che provenivano dagli incendi sviluppatisi in seguito al “contatto” col pianeta Aetheria, e a rimettere a posto quanto era caduto in terra o era stato sbalzato via a causa delle colluttazioni che avevano preceduto il contatto stesso. Alpha doveva tornare subito alla perfetta efficienza e tutti si adoperavano a questo scopo. D’improvviso, il comandante sentì il bisogno insopprimibile di mettere calma e pace in sé stesso, di essere lontano da quella sala e da quegli uomini. Solo! Via da tutto quello che era successo lì dentro e che aveva imposto una cappa di gelo e di disorientante solitudine dentro il suo cuore. Notò lo sguardo di Helen, fisso su di lui, ma non se ne curò. Anzi, in qualche modo quello sguardo addolorato lo feriva più di ogni altra cosa. Soprattutto da lei voleva andare via! Uscì, silenziosamente, dalla sala comando e si diresse verso i grandi finestroni laterali nel corridoio buio, sulla destra della porta dalla quale era uscito. L’incredibile realtà di quello che era accaduto lo colpì ancora. Sollevò lo sguardo verso l’universo sconfinato e misterioso, fuori da quella base, nel quale la Luna vagava alla ricerca di un destino che, contrariamente a quanto chiunque avrebbe potuto supporre, sembrava scritto, per lui e chissà quante altre creature, sin dalla notte dei tempi. Sentì il peso di quel destino e di quel compito accarezzargli il cuore e contemporaneamente stringerglielo in una morsa opprimente, carica di angoscia. Eppure un pensiero rassicurante, che avrebbe accompagnato per sempre i loro giorni, il loro peregrinare nello spazio e nel tempo, era venuto da quel primo incontro con il loro destino e con la regina Arra. Era quello di un compito, una missione a loro affidata, e di una sorta di mano divina a guidare e… proteggere quella comunità di naufraghi nello spazio.

Alan Carter aveva visto la rapida sortita del comandante dalla Sala Comandi e lo aveva seguito, rimanendo un po’ in disparte, restando sull’uscio ad assicurarsi che egli stesse bene, pronto a essere di nuovo al suo fianco, a spada tratta, sostenendolo contro tutto e tutti, come poco prima. Quando vide l’uomo fermarsi accanto alle vetrate, lo sguardo perso sull’universo, fuori di lì, oramai libero dalla ingombrante presenza del pianeta Aetheria, misteriosamente scomparso per seguire il proprio destino di mutazione, rimase lì a guardarlo, pensieroso. Alan era scalzo, in pigiama, come il comandante. Era fuggito dal Centro Medico, immobilizzando il dottor Russell e colpendo le guardie, per correre a porsi al fianco dell’uomo che era il loro leader, che li aveva condotti in salvo attraverso tante situazioni incredibili, in quei mesi di pellegrinazioni nell’universo, per sostenerlo, contro tutto e tutti, forte della sua fiducia totale in lui, in quello che egli sosteneva. Aveva freddo, ora che la tensione nervosa era calata e l’emotività rabbiosa sbollita, ma restava lì, preoccupato, a vegliare su John Koenig.

Un’ombra si stagliò sul pavimento, davanti a lui. Una figura femminile disegnata dalla luce proveniente dalla Sala Comandi. Alan volse il capo e vide che si trattava di Helen Russell. La donna osservava, silenziosamente, il comandante, che dava le spalle a entrambi. Per un attimo si volse a guardare il giovane pilota. I loro sguardi si incrociarono. Quelli della donna erano intenti, tristi. Alan vi lesse lo smarrimento e anche una sorta di muta richiesta di aiuto. Il giovane increspò le labbra in quello che voleva essere un velato sorriso di incoraggiamento. Non dimenticava di essere stato costretto a immobilizzarla poco prima e la cosa non gli sembrava affatto naturale, anche se vi era stato costretto. Si sentiva anche lievemente in imbarazzo nei suoi confronti. Sentiva su di sé, improvvisamente, il peso degli avvenimenti degli ultimi giorni e la fatica di quella convalescenza bloccata, interrotta. Chinò lievemente il capo, alquanto tranquillizzato, improvvisamente troppo stanco per reggere oltre, poi si allontanò, diretto verso il centro medico, dove Mathias avrebbe potuto prendersi cura di lui. Era evidente a tutti che fra il comandante Koenig e il dottor Russell c’era qualcosa di forte e profondo, ma Alan si chiedeva se il rapporto non fosse stato troppo gravemente lacerato e compromesso dall’atteggiamento che la donna aveva assunto nelle ultime ore. Ovviamente lei era stata convinta di agire per la sicurezza di Alpha e che Koenig e Alan stesso erano in preda ai postumi di una esposizione troppo prolungata alle radiazioni. Ma poteva questo servire a ricucire e risanare un rapporto che era stato invece, fino a quel momento, basato sulla totale fiducia reciproca, oltre che su sentimenti più privati? Alan sapeva che i due dovevano chiarire quello che era accaduto, in tutta la sua gravità, e che dovevano farlo senza interferenze altrui, se volevano che quegli eventi non pesassero troppo sulla reale essenza del loro rapporto. Ma, al contempo, Alan sapeva che il comandante non era più solo, per quanto pesanti fossero le ombre che gravavano sul suo animo, in quel momento, e questo indusse il giovane pilota a riprendere il suo cammino verso il Centro Medico con più tranquillità.

John Koenig sentì un passo leggero avvicinarsi alle sue spalle. Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere a chi apparteneva. Quel passo che, in altri momenti e differenti circostanze, aveva dato sollievo alla sua anima in pena, alla sua mente immersa in pensieri troppo scuri e cupi, che aveva anche fatto accelerare il suo battito, ora, stranamente, gli era di conforto ma gli induceva anche una contrazione dolorosa al cuore, alla bocca dello stomaco, nell’anima ancora ferita e dolorante. Come togliersi dalla mente l’espressione addolorata ma ferma sul volto della donna, lo sguardo sofferto ma deciso con cui, poco prima, lo aveva guardato mentre cercava di precipitarsi sul tasto rosso che dava il via alla serie di esplosioni a catena che avrebbero dovuto provocare una gigantesca onda d’urto e allontanare Alpha dal pianeta Aetheria? Come dimenticare quello che lei aveva fatto, il suo inganno che gli lacerava l’anima come una ferita inferta con continuità? Eppure ne capiva, logicamente, le motivazioni, il tormento che l’aveva accompagnata mentre compiva quello che lei credeva essere il suo dovere, l’unica cosa logica da farsi in quella situazione che appariva assolutamente priva di altre speranze. Perché provava quello strano desiderio di carezzarla, di consolarla, eppure anche quello di fuggire, di andare lontano da lei e dalla ferita che la sua presenza gli faceva sentire ancora aperta e lacerante, nel suo io più profondo? Non si volse a guardarla neanche quando lei gli fu accanto. Continuò a fissare, pensieroso, fuori, verso la parte dell’universo che, ormai, era alle loro spalle.

“John”, disse la voce della donna, dolente. “Perdonami!”

Solo ora l’uomo si volse, brevemente, a scrutarla. Vedere quegli occhi e provare per lei quei sentimenti così contrastanti era, per lui, motivo di sofferenza. Aveva bisogno di parlare con sé stesso, di capire, prima di poter sperare di superare quel momento e tutto quel travaglio interiore, quel senso di distacco da tutto, di abbandono, che andava formandosi in lui, così nuovo, così inaspettato e sconosciuto, eppure così insidioso e opprimente. Il respiro gli si fermò, per un istante, alla vista del dolore, del timore, nello sguardo della donna. Provò un forte impulso che lo spingeva ad alzare una mano e a carezzare quel volto con tenerezza, ma le ferite e le domande che gli bruciavano dentro glielo impedirono.

“No, avevi ragione, Helen!” le disse, calmo, lentamente, i pensieri persi a inseguire le misteriose maglie di un destino, di un disegno, di un futuro più grande di loro. “Avevi totalmente ragione,” continuò. “Se ti fossi comportata in modo diverso te ne avrei chieste le motivazioni! Hai fatto il tuo dovere…” si volse, tornando a guardare lo spazio infinito, fuori di Alpha. Una mano poggiata sul davanzale, come a sostenersi, a cercare un appiglio.

Helen avvertì il contrasto fra le emozioni che lo agitavano, le parole espresse e quello che aveva chiuso dentro. Capì che qualcosa si era spezzato, dentro di lui, e ne ebbe paura.

“…ma?” lo incoraggiò a proseguire nell’esposizione di quel che, intuiva, era stato fermato, taciuto, volontariamente. Avvertiva una ansia che le imponeva di andare avanti, di sapere, anche se temeva quello che poteva emergere.

“Ma… nulla, Helen” disse John. “Se tu fossi andata lì fuori, entrata in una astronave aliena e fossi tornata raccontando una storia pazzesca come quella che io ho raccontato, sarei stato un pazzo a non… imprigionarti, a crederti.” Ecco, pensò Helen. L’aveva detto quello che gli faceva male, che gli bruciava violentemente nell’animo. La sua voce aveva avuto, accompagnando quelle parole, un tono apparentemente normale, distaccato, ma Helen poteva leggervi chiaramente il rimprovero, l’amarezza, anche se queste erano appena percettibili, anche se non erano intenzionali. “Come potrebbe,” continuò l’uomo, “una persona sana di mente credere a una storia come questa?” Tornò a guardare, ma solo per un attimo, gli occhi tristi ma attenti della donna, a incrociare lo sguardo caldo e in attesa di lei. Poi tornò a volgersi verso l’esterno, perso in pensieri propri, cercando quasi un qualcosa che gli facesse capire il profondo mistero di quello che era accaduto. “Insomma,” disse ancora, “come si poteva immaginare che un pianeta enorme, su una rotta di collisione con la nostra, non ci avrebbe distrutti ma… ma semplicemente sfiorati…” concluse, quasi in un soffio.

John si soffermò a guardare attentamente, per qualche attimo, il profilo intento della donna. Helen scrutava, attenta, l’universo che li circondava e lo spazio lasciato incredibilmente libero da quell’enorme pianeta. Sembrava persa davanti all’enormità dell’avvenimento del quale erano stati protagonisti. L’uomo restò li, fermo, per un lungo momento, quasi indeciso sul da farsi. Poi la stanchezza lo invase, e non era solo quella fisica. Sentì come una lunga ondata di gelo e di distacco avvolgerlo e seppe che, in quel momento, la presenza della donna, lì, gli pesava enormemente.

Allora si volse e, senza proferire altre parole, si allontanò da quella finestra e da quella donna, il corpo lievemente curvo in avanti, quasi non reggesse più la fatica. Mentre andava via, sentì lo sguardo attento, addolorato, di Helen seguirlo, ma non si volse più a incrociarlo con il suo. Era stanco, vuoto, ferito e freddo e voleva solo essere lontano da lì, senza nessuno intorno.

Si affacciò alla soglia della Sala Comandi solo per avvisare Paul che andava a riposare e che gli cedeva il comando di Alpha. Poi riprese il cammino, per nulla impietosito dallo sguardo contrito e imbarazzato del giovane, né da quello attento di Victor.

 

Capitolo Primo

John Koenig percorse lentamente, stancamente, i corridoi di Alpha che lo conducevano al suo alloggio. Si sentiva intorpidito, stanco psicologicamente e fisicamente. Aveva freddo. Il leggero pigiama e i piedi scalzi sul nudo pavimento non facevano altro che accentuare il suo senso di inadeguatezza e di disagio profondo. Giunto a destinazione, aprì la porta con il commlock e, quando fu dentro, richiuse il pannello scorrevole e vi si appoggiò contro, ansante. Si sentiva addosso una stanchezza che gli appariva insuperabile, e anche i colpi ricevuti durante la colluttazione di circa un’ora prima, in Sala Comandi, cominciavano a far sentire i loro effetti. Gli doleva un polso. Lo guardò, tastandolo con l’altra mano. Gli pareva anche un po’ gonfio. Il torace, poi, sembrava lacerarglisi ogni volta che respirava un po’ più profondamente. Mosse un po’ le dita della mano sinistra. Gli sembravano a posto. Forse era solo una contusione. In ogni caso, non aveva alcuna voglia di andare al Centro Medico. Una rabbia profonda era dentro di lui, unita a un profondo senso di angoscia, ed entrambe tentavano di venir fuori con prepotenza. John si chiuse il volto fra le mani, stanco, addolorato, cercando di ricacciare dentro di sé quei sentimenti che non gli piacevano, che non era ancora pronto per affrontare. Si spostò dalla porta, quasi trascinandosi, fino a giungere al bagno. Andò al lavabo, lasciò scorrere un po’ d’acqua per renderla più fresca. Si chinò leggermente in avanti, appoggiandosi sul mobiletto davanti a sé, e si guardò allo specchio, attentamente, quasi stentando a riconoscere sé stesso. Come aspettandosi di vedere il suo volto trasformato nella stessa misura in cui lo era il suo stato d’animo. Si stupì nel notare che aveva un profondo taglio sulla fronte che sanguinava, anche se non copiosamente. Prese dal cassetto un batuffolo d’ovatta, lo mise sotto l’acqua fredda e tentò di tamponarlo. Poi si sciacquò abbondantemente il viso e tornò all’interno dell’alloggio. Si sedette sul bordo del letto tenendo, con una mano, un asciugamano premuto sulla fronte, sperando di arrestare il flusso di sangue. Aveva i brividi per il freddo. Allungò la mano libera verso il comodino e aumentò lievemente la temperatura della zona notte, abbassò quasi completamente le luci e si sdraiò, coprendosi con la coperta leggera di pail blu. Il dolore fisico che provava lo aiutava a superare quello più profondo che aveva dentro l’anima. Aveva detto a Helen quello che la sua mente, sinceramente, pensava, cioè che lei aveva agito rispettando quelle che erano le sue convinzioni e i dettami del suo dovere, certa com’era che egli fosse in preda all’azione delle radiazioni alle quali sia lui che Alan erano stati esposti. Le aveva anche detto che, al suo posto, probabilmente avrebbe fatto la stessa cosa, ma non sapeva se ciò corrispondeva esattamente al vero. Era incontestabile che solo trovandosi in determinate situazioni si possono conoscere le proprie vere reazioni. Questo lo pensava ancora. Ma non poteva impedirsi di sentirsi profondamente ferito dalla mancanza di fiducia che Helen aveva mostrato nei suoi confronti e nel suo giudizio. Tutti si erano comportati così e ora John aveva la sgradevole sensazione di essere diventato, di colpo, un estraneo, quasi fosse stato proiettato in un’altra Base Alpha, diversa dalla sua, nella quale tutti quelli che lo circondavano non erano che controfigure di quelli che egli aveva, sino ad allora, reputato suoi amici. Ma forse era solo in lui l’errore. Forse si era aggrappato, inconsciamente, a un’idea tutta sua delle persone che lo circondavano, che non corrispondeva al reale. Forse doveva smettere di sentirsi parte di una sorta di famiglia e convincersi che quello, nonostante tutto, era solo un lavoro.

Scosse il capo. No, le sue erano solo le reazioni di un uomo ferito, toccato nelle più intime convinzioni da una mano fredda che gli aveva raggelato l’animo, procurando, con esse, una profonda lacerazione.

Quello che aveva detto a Helen era vero. La sua mente, logicamente, non poteva che vedere la realtà con occhi obbiettivi. Ma quanto gli faceva male quello che era accaduto! Quanto lo feriva il modo in cui tutto si era svolto!

Solo Alan... pensò. Ancora una volta Alan era stato al suo fianco, incondizionatamente, senza riserve, forte della fiducia che riponeva in lui, della solida certezza che viene dalla stima profonda che legava entrambi. Ma questo non era servito. Entrambi erano andati fuori da Alpha, protetti solo dagli schermi delle aquile, ed erano stati esposti alle radiazioni causate dalle esplosioni delle cariche nucleari con le quali avevano fatto saltare un asteroide in rotta di collisione con la Luna. Agli occhi di tutti sia lui che Alan erano in preda al delirio, affetti dal male causato dalla contaminazione. Era logico che Victor, Paul, Helen e persino la dolce Sandra, spinti dalla paura del contatto con quell’enorme pianeta che era Aetheria, pensassero a quello che aveva raccontato loro come alla manifestazione di un malessere da contaminazione, che si aggrappassero a quella convinzione senza stare lì a rifletterci troppo, giustificando con questa ipotesi la loro decisione di… ammutinarsi. Ma il modo, il modo… Era questo quello che lo feriva! Helen aveva finto di curarlo, di aiutarlo e, in perfetto accordo con Victor, aveva approfittato della totale fiducia che egli riponeva in lei per somministrargli un potente sonnifero, per mettere addirittura due guardie alla sua porta. Avevano… complottato… sì, Victor e Helen avevano complottato, finto fiducia, stima… lo avevano ingannato, inducendolo a rilassarsi, certo di essere compreso, creduto, circondato da amici, che la sua autorevolezza e il suo ruolo non erano messi in discussione. E invece… invece gli avevano somministrato un farmaco e lo avevano lasciato, fiducioso, inconsapevole, a riposare nel suo alloggio, sorvegliato da guardie che gli impedissero l’uscita. Aveva dovuto lottare per poter lasciare l’alloggio e raggiungere la Sala Comandi. Aveva dovuto lottare strenuamente, contro tutti, fianco a fianco con Alan Carter, per riuscire, alla fine, a impedire l’esplosione e permettere il contatto tra i due corpi celesti. Se lo avessero contestato apertamente, pensò John, incupito dalla rabbia che sentiva crescere sempre più dentro di sé, se gli avessero detto quello che pensavano, come invece avevano fatto Paul e gli altri, avrebbe capito, avrebbe compreso. In fondo era la loro convinzione ed era nel loro pieno diritto dissentire da lui, avere opinioni diverse, anche se la decisione finale, a rigor di logica, toccava a lui. Avrebbe accettato con maggiore serenità che Helen gli dicesse chiaramente quello che pensava, anche rimanendo ferma nelle sue convinzioni, che lo destituisse dal comando per manifesti problemi medici, ma non che gli facesse credere di essere compreso, apprezzato, aiutato, per poi ingannarlo a quel modo, prima che egli potesse bloccare la procedura per la serie di esplosioni programmate con lo scopo di generare un’onda d’urto che avrebbe allontanato la Luna da Aetheria ed evitato il contatto. John si pose una mano sugli occhi, chiudendoli, serrandoli, come a evitare di vedere ancora, nella sua mente, il volto di Helen mentre, alla riunione del personale di comando, fingeva di credergli, di concordare con lui, di avere fede in lui, rabbonendolo, calmandolo, mentre meditava l’inganno. Come potevano quegli occhi nei quali più volte aveva creduto di leggere qualcosa di più di quello che c’era, apparentemente, fra di loro, qualcosa di più di quello che entrambi lasciavano libero di esprimersi, essere così aperti e ingannevoli al tempo stesso? Non riusciva a levarsi dalla mente quegli occhi, John, nonostante, in quel momento, essi gli dessero una sensazione amara, tagliente, profonda come la ferita sanguinante di un pugnale infisso nella propria anima.

“Bip… Bip…” Un segnale di richiamo proveniente dalla porta interruppe le sue meditazioni. John Koenig si sporse lentamente, prese il commlock sul comodino e accese la comunicazione. Il volto di Helen Russell apparve sul piccolo monitor.

“John,” disse la donna, “posso entrare?” Il volto esprimeva ansia e preoccupazione.

“Non è il momento, Helen. Vorrei dormire un po’.”

“Non ci metterò molto, John. Voglio visitarti un attimo”, insistette lei, una nota tremante nella voce.

“Sono molto stanco, Helen”, replicò l’uomo, alquanto duro, quasi insofferente. “Stavo per addormentarmi. Sto bene. Non è il caso di preoccuparsi. Voglio solo dormire.” Concluse con un tono secco.

“John…” la voce di Helen era bassa, spezzata da una esitazione dolorosa, ferita ma decisa. “Voglio parlarti.”

“Non ora, Helen. Parleremo, ma non ora.” La voce di John era sempre più dura e non ammetteva repliche, ma lei non si fece scoraggiare.

“Fammi entrare solo per un attimo, John.”

L’uomo si arrese, contrariato. Schiacciò una tasto del commlock e attivò l’apertura della porta.

Helen Russell entrò, quasi titubante, un sorriso appena accennato sulle labbra. In mano aveva un vassoio con un sandwich, un bicchiere e una caraffa con una spremuta d’arancia.

“Ti ho portato qualcosa da mangiare,” disse, “nel caso avessi fame…” Notò lo sguardo dell’uomo che fissava il liquido nella caraffa e intuì il suo pensiero. “Non ci sono sonniferi, John” disse ancora, con un tono tra lo stizzito e l’implorante.

“Non lo pensavo…” disse l’uomo “…ora non avrebbe avuto senso… ma prima hai ritenuto opportuno che fosse il caso…” La sua mascella si serrò in una smorfia di rabbia e di dolore.

Helen poggiò il vassoio sul tavolino e volse il capo per nascondergli le lacrime che le invadevano gli occhi e che tentavano di venir fuori. Si sedette, poi, sulla sponda del letto, lontana da lui, ma anche vicina, in qualche modo.

“Mi perdonerai mai, John?” Gli chiese, il capo chino.

Koenig la guardò, così addolorata, colpita, ferita e fu tentato dalla sua dolcezza, dalla tenerezza che provava per lei. Forzò la propria mano a non sollevarsi, a non prendere quella di lei e stringerla fra le sue. La rabbia che provava, ora, era più forte dei sentimenti che provava per lei, la spaccatura creata nel suo animo era più profonda del suo desiderio di valicarla, di ricucirla. Si sollevò,appoggiandosi su un gomito, e si volse per non vedere il volto di Helen. Prese di nuovo l’asciugamano e la portò alla fronte, premendo.

“E’ ora che anche tu vada a dormire, Helen” le disse, non rispondendo, intenzionalmente, alla domanda che la donna gli aveva posto. “Ora ho davvero bisogno di dormire, e credo che non farebbe male neanche a te farlo. Parleremo, ma non ora, per favore.” Fece per tornare a sdraiarsi ma vide, con la coda dell’occhio, una mano di Helen che si alzava per cercare di toccargli la ferita, controllarla. Istintivamente, si tirò indietro per evitare il contatto e questo gesto fece male, intensamente, a entrambi. Helen ritrasse la mano come se fosse stata toccata da qualcosa di gelido. Si tirò in piedi e si aggiustò la cintura e il commlock agganciato.

“Bene. Io sono fuori servizio,” gli disse, “per cui tranquillizzati, se ti sentirai male chiama pure il Centro Medico. Troverai Bob Mathias, non me!” Quindi si allontanò senza pronunciare più parola, ferita ma fiera.

John ne seguì la figura con lo sguardo, fino a quando la porta dell’alloggio non si fu chiusa alle sue spalle. Era fortemente tentato di richiamarla, di correrle dietro, di consolarla e scusarsi con lei. Una parte di lui avrebbe voluto andare da lei, accettare il suo affetto, dimenticare tutto quello che era accaduto, ma l’altra parte chiedeva a sé stesso quale era il senso di quel rapporto, di tutto il suo comando, se nessuno di questi era basato sulla fiducia, sulla stima e il rispetto, se lei e gli altri erano giunti a ingannarlo in quel modo che lo feriva così profondamente. Si lasciò andare, tornando a distendersi, lo sguardo fisso sul soffitto, tentando di soffocare il dolore che avvertiva in ogni muscolo e che ora, passati i primi momenti, diventava sempre più acuto.

Era notte fonda quando John, cercando di rigirarsi per l’ennesima volta nel sonno agitato, si svegliò. Era dolente, affaticato e più stanco di quando si era addormentato. Si sentiva picchiato nel corpo e nell’anima. Incubi, immagini senza senso apparente, casuali e ossessive, avevano popolato i suoi sogni, ma ora seppe che non era solo quello a tormentarlo. Aveva davvero bisogno di cure mediche. A fatica, dolente, si tirò a sedere. Si guardò intorno, disorientato. La cena che gli aveva portato Helen era ancora sul tavolino, intatta. L’asciugamano con la quale aveva tamponato la ferita sulla fronte era intrisa di sangue.

“Accidenti!” imprecò fra sé, frustrato. “Accidenti!” ripeté, non riuscendo a perdonare a sé stesso quella debolezza, il suo disorientamento, nella nuova situazione in cui lo poneva la constatazione di dover aver bisogno di qualcuno e di quanto fossero, in contrapposizione, fragili i rapporti che lo legavano alla gente di Alpha, a Helen, a Victor, a Paul e agli altri. Un enorme senso di disappunto e, contemporaneamente, di solitudine, si unirono alla percezione delle proprie sofferenze fisiche, insieme alla frustrazione e alla rabbia. Si alzò a fatica, indossò la vestaglia blu di ordinanza sopra il pigiama e mise le pantofole. Poi prese il commlock e si diresse alla porta, pronto a raggiungere il Centro

Medico. Ma le gambe gli dolevano e sembravano non reggerlo. Ogni respiro gli procurava lancinanti dolori alla gabbia toracica e dei capogiri contribuivano a complicare la cosa. Era quantomeno indolenzito, o forse era qualcosa di più. Si appoggiò, ansante, alla porta. Sollevò il commlock e accese la comunicazione col Centro Medico.

“Qui John Koenig,” disse.

“Centro Medico,” rispose una voce familiare. “Sono il dottor Mathias, Comandante.”

“Ho bisogno di aiuto, Bob”, disse John, quasi con un fil di voce. “Non mi sento bene. Credo di aver riportato delle conseguenze dalle colluttazioni di ieri sera.”

“Corro da lei, Comandante”, rispose il giovane medico, concitato ma preciso e professionale,

“Grazie, Dottore.”

“Comandante…” nella voce di Mathias c’era una nota d’indecisione. “Vuole che avverta il Dottor Russell?”

“No!” La sua esclamazione, il tono deciso della voce, colpirono il giovane medico, ma anche sé stesso.

“Ma, Signore…” Mathias esitò, incerto sul da farsi, “credo che il Dottor Russell lo vorrebbe sapere…”

“Non si tratta di nulla di grave, Dottore”, insisté John, “solo qualche contusione e forse un paio di punti. Ho bisogno del suo aiuto per poter tornare a dormire e riposare tranquillamente.”

“Bene, Comandante.” Bob era esitante, dubbioso, ma obbedì. “Corro da lei.”

Effettivamente, meno di tre minuti dopo, Bob Mathias, accompagnato da una infermiera, era nell’alloggio del comandante. Visitò rapidamente l’uomo e giudicò più opportuno condurlo al centro medico per potergli fare degli esami più approfonditi e medicarlo meglio. John Koenig non era molto concorde con quella decisione ma si sottomise ai voleri del medico e lasciò che questi lo aiutasse a distendersi sulla barella e che lo coprisse con un lenzuolo, prima di portarlo fuori dal suo alloggio, verso il Centro Medico.

Disteso, gli occhi fissi sul soffitto che scorreva sopra di lui, la mano destra sollevata e posta sotto la nuca, John Koenig lasciava andare i propri pensieri e cercava di rilassare i propri muscoli dolenti. Scosse la testa, amareggiato. Quella situazione di dipendenza, di impotenza, anche se momentanee, non gli erano familiari e lo mettevano in uno stato di disagio che gli era difficile da sopportare, soprattutto in quel momento.

Quando furono giunti al Centro Medico, ancora sdraiato sul lettino, mentre attendeva che Mathias e le due infermiere preparassero le strumentazioni necessarie per gli esami diagnostici che intendevano praticargli, John si guardò intorno. Si accorse che su un altro lettino, accostato ad alcuni pannelli che ne leggevano gli impulsi vitali, c’era Alan Carter. Un sorriso caldo d’affetto allargò lievemente la bocca del comandante e illuminò il suo volto. Col suo carattere impulsivo, ma fiero e battagliero, Alan gli era stato accanto, nonostante avesse riportato diverse ferite dall’incidente occorso alla sua aquila, dopo l’esplosione delle cariche nucleari sull’asteroide. Ora era di nuovo ricoverato lì. Povero Alan! Guardò Bob Mathias trafficare con alcuni strumenti e gli disse, indicando il pilota con un movimento del capo:

“Come sta, Bob?”

“Molto meglio, Comandante. Ha solo bisogno di riposo e gli stiamo praticando la cura del sonno, per questo lo vede collegato agli strumenti. Ma domattina lo dimetteremo. Potrà trascorrere le due settimane di convalescenza nel suo alloggio.”

“Ne sono contento…” John sospirò. “Non se l’è passata molto bene, ultimamente.” Sorrise, lievemente.

Bob gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla.

“Stia tranquillo, comandante”, gli disse, rassicurante. “Ora pensiamo a lei.”

John annuì, rilassandosi. Bob era una brava persona, equilibrato e assennato. Non aveva alcuna colpa.

“Mi affido a lei, Dottore”, disse.

“Sicuro di non volere che chiami il Dottor Russell?”

“Sicurissimo!” gli disse John. “Mi fido ciecamente di lei. Non desidero altri consulti medici.”

“Io intendevo…” ma Bob decise di non terminare la frase. In fondo, non gli piaceva impicciarsi e, se il comandante voleva così, probabilmente aveva le sue buone ragioni. “Bene, Comandante”, disse e condusse la barella verso il centro diagnostico.

Un’ora dopo, le indagini mediche su John Koenig erano terminate. Mathias gli aveva fatto degli esami radiografici e termografici per controllare sia eventuali fratture che problemi vascolari. Gli aveva bendato il torace, fasciandolo con delle bende elastiche abbastanza strette in quanto aveva rilevato due costole incrinate. Aveva poi imbracato il polso sinistro del comandante con un tutore rigido che serviva a impedire che la frattura riscontrata si scomponesse, infine era passato a suturare la vistosa e sanguinante ferita che l’uomo aveva sulla fronte.

“Ha bisogno anche lei di un paio di settimane di riposo, Comandante,” disse infine Bob, deponendo la penna laser per suture sul carrello medico che aveva accanto e applicando una benda sulla fronte dell’uomo. “Non deve fare sforzi e deve evitare di sollecitare la gabbia toracica, né deve sforzare la mano sinistra, anche se è ben chiusa nel tutore. Per questa notte resterà qui. Domattina la controllerà il Dottor Russell e poi potrà tornare al suo alloggio.”

“Non c’è motivo perché io resti qui, dottore, né perché mi controlli qualcun altro”, disse John, tirandosi a sedere sul lettino del Centro Medico. “Sto molto meglio, ora”, continuò, “ho solo bisogno di dormire e riposare. Un buon libro mi farà compagnia, se non ci riuscirò.”

“Ma, Comandante…” provò a protestare Bob, “oramai è qui. Io le consiglio di restarci.”

John scosse la testa, cercando, contrariato, le proprie pantofole.

“Le assicuro che sto bene, dottore”, disse. “Non è necessario che io rimanga.”

“Come vuole, Comandante.” Bob si arrese e gli preparò, in un misurino, uno sciroppo. “Beva questo”, gli disse, porgendogli il piccolo contenitore contenente un liquido viscoso dal colore ambrato. “L’aiuterà a riposare senza dolore. Domani passerò a controllarla e le porterò la terapia.”

John bevve d’un fiato il contenuto e riconsegnò il misurino al medico. Poi si alzò, prese il proprio commlock e lanciò un’occhiata attenta ad Alan Carter che continuava a dormire.

Dopo un lungo momento in cui parve immerso in pensieri distanti da quel luogo e quella circostanza, il comandante riprese a parlare al giovane medico.

“Bene, dottore”, disse, “la ringrazio e le auguro la buona notte”. Detto questo, senza attendere la risposta, John Koenig lasciò il Centro Medico, un po’ malfermo sulle gambe, e richiuse la porta alle sue spalle.

Mathias rimase, perplesso e dubbioso, a guardarlo allontanarsi. Non avrebbe potuto fare nulla per indurlo a cambiare idea e, in fondo, motivi fondati non ce ne erano. Ciò nonostante avrebbe preferito che il comandante non fosse così caparbio e orgoglioso. Almeno l’antidolorifico che gli aveva somministrato l’avrebbe messo in grado di dormire tranquillamente. Poi, l’indomani, avrebbe provveduto al da farsi. Si volse, distogliendo la sua attenzione dalla porta, e prese la cartella clinica del comandante, una penna, e si preparò a stilare il rapporto riguardo all’intervento effettuato sul paziente.

John non si diresse direttamente al suo alloggio. Vagabondò, pensieroso, per qualche minuto, per i corridoi bui e deserti di Alpha, quelli esterni. Si sentiva improvvisamente estraneo come non si era sentito mai, fuori posto. Camminava con passo stanco e lento, e così sentiva muoversi la sua anima. Guardava quei luoghi, quelle pareti che erano diventati la sua casa, e gli sembrava di non riconoscerli, di essere su una nuova e diversa Alpha, sulla quale non aveva mai vissuto. La medicina che gli aveva somministrato Mathias cominciava a fare effetto? Quasi gli sembrava di essere circondato da sconosciuti, soprattutto ora, con la maggior parte nel personale non operativo rintanata nei propri alloggi, addormentata e silenziosa, mentre lui percorreva i corridoi bui e deserti.

Giunse, lentamente, nella zona panoramica. Si appoggiò alla parete per vincere un capogiro. Chiuse gli occhi, poi si avvicinò alla finestra centrale e si appoggiò col gomito destro al davanzale. Tante cose erano mutate nella sua vita e nella sua mente, nella sua percezione della realtà, oltre che nell’universo fuori di Alpha dopo il suo incontro con Arra, dopo che i loro due mondi si erano toccati, carezzati, sfiorati, per poi separarsi per sempre, proiettati ciascuno verso il proprio destino. Le parole misteriose dell’eterea regina di Aetheria erano rimaste enigmatiche, fisse nella sua mente, dove si ripetevano mentre egli cercava una risposta, una chiave, al loro mistero. Aveva prestato fede ad Arra, aveva creduto in lei, in quello che lei gli aveva detto. Aveva lottato con i suoi amici più cari, John Koenig, convinto dalla profondità del mistero e delle promesse impresse negli occhi e nella mente della regina. Eppure il significato profondo di quello che era accaduto ancora gli sfuggiva. Come quello delle parole misteriose pronunciate dalla donna, di quello che lei gli aveva detto circa il destino di Alpha, quello al quale ciascuno di loro era chiamato, dalla notte dei tempi. Il mistero ancora avvolgeva, nella mente di John, le implicazioni, positive e negative, di quanto Arra gli aveva svelato. La regina di Aetheria gli aveva detto di attendere il suo arrivo, proprio il suo, di John Koenig, dal pianeta Terra, da migliaia di anni. In quel momento lui si era sentito molto piccolo, schiacciato da un disegno e da una responsabilità tanto più grande della sua persona. Ma anche sollevato, liberato dalla opprimente sensazione di essere uno sperduto e insulso granello, vagante nell’immensità degli spazi e dei tempi, di quello sconfinato universo. Possibile che lui, proprio lui, avesse un compito, un incarico, un fine di tale importanza, nel destino di tutto un mondo, di quell’enorme pianeta, degli Alphani, di quell’angolo di universo e quanto altro ancora? Di nuovo la sensazione contrastante di essere piccolo e sperduto dinanzi ai disegni del cosmo, di quella sorta di intelligenza cosmica della quale aveva avuto più occasioni di parlare con Victor, eppure, al tempo stesso, sollevato, rassicurato proprio dall’immensità di questo progetto. John guardò, meravigliato, estasiato, rincuorato, l’universo che li circondava. Era meraviglioso, affascinante, punteggiato di miliardi di stelle e galassie. Gli sembrò di non averlo mai visto così bello, così incantevole, misterioso e accattivante, neanche quando, ai suoi primi voli, lo aveva visto dal di fuori dell’atmosfera terrestre per la prima volta. Apparentemente era un mondo pacifico, quello che aveva dinanzi, profondo e sereno come una mare calmo, in una magnifica sera d’estate, in invitante attesa. Lì fuori, da qualche parte, doveva compiersi il loro destino, che era scritto per loro. Ma quale era, realmente? Le parole di Arra erano state chiare e misteriose al tempo stesso. E lui ora non sapeva più se gli erano di conforto o se gli chiudevano per sempre ogni speranza.

“Ho atteso di conoscerti da tanti anni, John Koenig”, gli aveva detto l’anziana regina dai modi così eterei ed eleganti.

E lui era stato subito catturato, affascinato dalla profonda intelligenza, dalla sincerità e gravità che leggeva nel fondo di quegli occhi azzurri, nelle pieghe di quel bel volto di donna, ricoperto da profonde rughe.

“Dimmi di più”, le aveva chiesto, “quale sarà il nostro destino, il nostro futuro?” l’aveva incalzata con ansia, anche se gentilmente. “Cosa ne sarà di noi?”

Arra gli aveva risposo con negli occhi una luce quasi sognante, un tono solenne.

“Voi continuerete.” Aveva detto, grave, la voce ferma e decisa come quella di una sacerdotessa che pronuncia una profezia. “La vostra odissea non avrà fine. Voi prospererete e vi moltiplicherete, colonizzando nuovi mondi, nuove galassie. Popolerete le zone più profonde e remote dello spazio.”

Avrebbe voluto chiederle di più e ora, più che in quel momento, si rimproverava di non averlo fatto. Cosa significavano, veramente, le parole di quella strana e affascinante donna? Perché non era stata più chiara?

“La vostra odissea non avrà mai fine”, disse John, sussurrando fra sé le parole della regina Arra. “Mai fine…” ripetè, angosciato e affascinato dai molti significati di quelle parole. “Vi moltiplicherete e colonizzerete nuovi mondi…” pensò. Questo cosa significava? Aveva bisogno di comprendere o anche solo di meditare e metabolizzare le parole di Arra, anche se sapeva che, oramai, non poteva più chiarire quello che non era stato detto esplicamene, né sapeva se effettivamente, desiderava conoscerlo. Forse anche per questo la regina di Aetheria era stata vaga: conoscere il futuro al quale erano destinati avrebbe, indubbiamente, condizionato le loro azioni, inducendoli a essere meno guardinghi e attenti, oppure più rassegnati, mettendoli, forse, più a rischio che se si fossero trovati a fronteggiare l’ignoto e, quindi, modificando questo destino. Sì, forse era così. Ma John sapeva anche che non era nel suo carattere lasciare da parte qualcosa di importante come quello che Arra gli aveva detto. Ne avrebbe risentito la sua pace interiore. John fece una smorfia che voleva essere un sorriso ironico e amaro. “Pace interiore?” pensò. “Quale pace interiore?” Si forzò a drizzarsi. Aveva molte, troppe cose sulle quali meditare. Ma ora il farmaco che Mathias gli aveva somministrato cominciava a fare effetto e lui si sentiva sempre più intorpidito. Doveva tornare assolutamente al suo alloggio e mettersi a dormire. Gli sembrava di non riuscire più a reggersi in piedi. Si sollevò e, a passo lento, il capo lievemente chino, si avviò di nuovo per i corridoi di Alpha, diretto alla zona degli alloggi dello staff direttivo. A un tratto si accorse di essere giunto davanti all’alloggio di Helen Russell. Come c’era finito? Il suo subconscio aveva avuto la meglio su di lui e lo aveva guidato li? C’era giunto perché lei era uno dei suoi crucci e il motivo di un forte contrasto che sentiva sospeso dentro di sé? Si soffermò a guardare il nome della donna scritto a grandi caratteri bordeaux sulla porta. Chissà cosa stava facendo, in quel momento? Stava dormendo? Oppure era sveglia a meditare? John scosse la testa, adirato con sé stesso per quella debolezza che lo aveva portato sin lì, con lei, per l’inganno che gli sembrava ancora di vedere nei suoi occhi, nei quali, invece, egli aveva riposto fiducia incondizionata. Si rendeva conto che, logicamente, non aveva motivo di sentirsi così tanto ferito da lei, da Victor, eppure qualcosa sanguinava copiosamente dentro di lui, quando vedeva, con gli occhi della mente, quel volto sorridente e fiducioso che, invece, meditava il tradimento.  Gli manifestava la sua fiducia e invece pensava a chiamare le guardie per sorvegliarlo, a somministrargli un potente sonnifero nel the che gli portava, per ingannarlo e agire alle sue spalle, in combutta con Victor, il suo amico di sempre, un padre, per lui.

John si riscosse. Serrò le labbra in una smorfia d’ira repressa e riprese a passo rapido il suo cammino verso il proprio alloggio, sdegnato. Si allontanò dalla porta di Helen quasi cercando una boccata d’aria pulita, lontano da lei, e la stessa sensazione ebbe passando, veloce, senza neanche darvi un’occhiata, davanti alla porta di Victor.

Giunse al suo alloggio quasi ansante, il corpo affaticato e intorpidito dal farmaco. Aveva faticato per giungere, quasi di corsa, nell’appartamento, rifugiandovisi d’un balzo. Quando fu dentro, chiuse la porta e, col commlock, impartì al computer un ordine vocale, bloccandone l’apertura. Poi quasi gettò lo strumento elettronico sul mobile libreria, accanto all’ingresso della zona notte, e andò fino al suo letto. Per un attimo rimase a contemplarlo, quasi stentasse a riconoscere il luogo, poi vi si lasciò cadere quasi di traverso e si addormentò così, in quella stana posizione, sfinito e stremato.

 

Capitolo Secondo

Helen Russell giunse molto presto al Centro Medico, quella mattina. Aveva trascorso una notte agitata. Si era svegliata più volte, in preda a una angoscia che solo in parte riusciva a comprendere. Aveva l’impressione dolorosa di aver perso qualcosa di fondamentale e irripetibile nella sua vita, e che questa situazione fosse definitiva. Si sentiva come privata, di colpo, di una parte fondamentale di sé e quello che, nel suo animo, rendeva la cosa più angosciante e dolorosa era l’orribile sensazione si essere stata lei stessa a gettarla via, ad allontanarla, con imperdonabile leggerezza. Era convinta di quello che faceva, quando aveva deciso di destituire John Koenig dal comando di Alpha. Era più che certa che fosse in preda al delirio causato dalle radiazioni alle quali John era stato sottoposto quando, a dispetto di tutte le precauzioni e di tutte le logiche, era uscito nello spazio subito dopo l’esplosione nucleare che aveva mandato in frantumi l’asteroide in rotta di collisione con la Luna, per cercare Alan. Era indubbio che, fra i due uomini, vi fosse un forte legame di stima, di fiducia e di amicizia, che andava oltre i rispettivi ruoli, ponendosi marcatamente sul lato umano. Ma, per Helen, il fatto stesso che anche Alan dava chiari segni di non essere completamente in sé, con visioni e discorsi sconnessi, era una prova che sia lui che John erano stati colpiti dallo stesso male. Erano gli unici, oltre a Morrow, a essere stati fuori, protetti solo dagli schermi delle aquile, durante la piena azione delle radiazioni. Ma ora Helen si rendeva conto di aver sbagliato, se non nella sostanza, almeno nei modi e nella forma. Avrebbe dovuto essere chiara, spiegargli quello che era il suo pensiero. Col senno del poi, era questo che Helen si rimproverava ma, sul momento, John era sembrato completamente irrazionale, in preda a un delirio che non aveva nessun fondamento logico. Avrebbe servito parlare con lui? No! Non c’era tempo! Il pianeta, enorme, incombeva su di loro e John sembrava totalmente convinto di quello che diceva, quasi posseduto. Ora, nella mente di Helen, oltre alla angosciante sensazione di perdita, si affacciava anche il desidero di saperne di più, riguardo a quello di cui John aveva cercato di parlare a tutti loro. Avrebbe voluto potergli chiedere particolari, di raccontarle della regina di Aetheria, di quel mondo fantastico di cui lei aveva parlato con Koenig, di ciò che lei aveva detto del futuro della gente di Alpha. Ma era certa che John non le avrebbe concesso la sua confidenza, ora, né la sua attenzione. Sperava solo che, col tempo, le cose sarebbero tornate ad avvicinarsi a quelle che erano prima. Stanca più di quando era andata a dormire, sia fisicamente che psicologicamente, intorno alle cinque e trenta del mattino, Helen si era alzata, aveva fatto una rapida doccia, preso una abbondante tazza di caffé, poi si era vestita ed era andata a rilevare Bob Mathias al Centro Medico. Era in anticipo di più di un’ora ma era certa che il suo collega avrebbe apprezzato di poter andare a riposare un po’ prima e lei forse, con l’aiuto del lavoro, sarebbe riuscita a rasserenarsi un po’. Varcò la soglia del pronto soccorso che erano quasi le sei e trenta. Mathias, intento nello stilare i rapporti della notte, sollevò il capo, stupito di vederla.

“Dottor Russell!” esclamò. “E’ ancora presto! Come mai è qui?”

“Buon giorno, Bob” rispose lei, cercando di sorridergli. “Non riuscivo a dormire così ho pensato di venire qui e di permetterle di andare via un po’ prima.!”

“La ringrazio, Dottore” disse lui, cordiale. “Ma non ho ancora terminato di aggiornare le cartelle e il rapporto notturno.”

“Allora, mentre lei finisce, le preparo del caffé, così potrà ragguagliarmi su quello che è accaduto”, rispose la donna, avvicinandosi al tavolino apposito e armeggiando con l’occorrente.

“Molto bene…” Mathias impilò le cartelle cliniche della notte e riprese a scrivere le proprie annotazioni sulla penultima. “Qualche ferito leggero da piccoli incidenti dovuti alle combustioni di ieri sera”, riprese a dire. “Nulla di grave. Nessun ricoverato. Carter è ancora sotto terapia del sonno ma sta molto meglio e può tranquillamente essere dimesso in mattinata. Gli ho prescritto una convalescenza di due settimane e ho già presentato la richiesta di esonero dal servizio per malattia alla Sala Comandi.” Sollevò lo sguardo per sorridere a Helen che gli porgeva una tazza di caffé. “Grazie”, disse. Prese la tazza e continuò a parlare. “Ho mandato un analogo rapporto anche per il Comandante”, disse.

“Il Comandante?” Helen era meravigliata e preoccupata.

Bob posò sulla scrivania la penna e la tazza, rovistò fra le cartelle cliniche, ne estrasse una e la porse a Helen.

La donna afferrò l’incartamento e lo aprì, leggendo attentamente e con ansia crescente quanto vi era scritto.

“Stava abbastanza bene dopo il mio intervento, Dottore”, disse Mathias, dopo qualche attimo. “Gli ho consigliato di rimanere sotto controllo ma lui si è rifiutato categoricamente. Non ha atteso neanche che potessi riaccompagnarlo al suo alloggio.”

Helen prese le lastre termografiche e quelle radiografiche e si avvicinò alla lavagna luminosa per analizzarle. Rimase per qualche attimo a contemplarle, poi raccolse il tutto e lo reinserì nella scheda per passare ad analizzare i tracciati. Li fece scorrere, con attenzione, fra le dita, poi alzò lo sguardo per incontrare quello di Mathias che, nel frattempo, si era alzato e l’aveva seguita.

“Stava bene, Dottor Russell”, disse l’uomo. “Non deve preoccuparsi. Nulla di grave.”

“Perché non mi ha chiamata?” gli chiese Helen. “Sarei venuta subito.”

“Ho provato a convincerlo ma lui non ha voluto assolutamente che lo facessi.”

“Gliel’ha detto chiaramente… che non voleva me?” Chiese Helen, ferita e titubante.

“Beh, non proprio. Ha detto che si fidava completamente del mio operato e che non desiderava un altro consulto medico”, rispose il giovane.

“Capisco…” mormorò Helen.

“Ho promesso di passare da lui in mattinata…” Mathias sembrava titubante “…per controllarlo e portargli la terapia.” Esitò. “Ma se vuole andarci lei…”

Helen rimase taciturna per un lungo momento, meditando e interiorizzando le notizie appena apprese, poi si volse di nuovo a guardare il collega negli occhi, fiera, a testa alta, anche se gli occhi, fiammeggianti, erano alquanto lucidi.

“No”, disse. “Ci vada lei, come ha promesso, se non le è di troppo disturbo.”

Bob abbassò il capo, guardando l’ultima cartella che aveva terminato di compilare, poi si volse e tornò verso la scrivania per posarci sopra l’incartamento. Quindi tornò a volgersi verso la donna.

“Bene”, disse. “Io ho terminato. Se non ha cambiato idea andrò a riposare per qualche ora.”

“Vada pure, Bob”, rispose Helen, soprappensiero. “Stia tranquillo.”

L’uomo annuì, salutò con un cenno del capo e si diresse verso la porta.

“Bob…” la voce di Helen lo fermò sull’uscio.

“Si?”

“Mi faccia sapere, dopo che sarà passato dal comandante…”continuò la donna, quasi sottovoce.

“Lo farò senz’altro, Dottore.” E, dopo un sorriso rassicurante e amichevole, Mathias si allontanò.

Helen stava terminando di fare gli ultimi controlli ad Alan Carter, prima di mandarlo al suo alloggio, per la convalescenza. Misurò, col rivelatore, la pressione e la temperatura. Poi sorrise, lievemente, soddisfatta e incoraggiante.

“Bene, Alan”, disse. “La pressione è un po’ bassa, ma è abbastanza normale che sia così, data la serie di stress alla quale è stato sottoposto. La temperatura invece è un po’ alta, ma anche questo è normale. Il suo corpo sta reagendo alle ferite e alle contusioni che ha riportato.”

Alan si tirò su a sedere sul lettino dell’infermeria, indossò la casacca del pigiama e annodò la cintura in vita.

“Allora, posso andare, dottore?” chiese. La sua voce era freddamente cortese, distaccata e formalmente educata. Il volto cupo e serio non era per nulla catturato dal sorriso e dal tono amichevole di Helen.

La donna ne fu colpita e infastidita. Ci si metteva anche Alan, ora?

“Qualcosa la disturba, Carter?” chiese, adirata.

“Me?” Alan prese la vestaglia, che indossò sopra il pigiama, e scese dal lettino. “Perché dovrebbe?” chiese ancora. “Voglio solo allontanarmi di qui e andare a riposare nel mio alloggio”

“Non è l’impressione che da!” continuò Helen, riponendo il fonendoscopio sul carrello per le attrezzature.

“Mi dispiace, allora. Non intendevo…” Alan fece per allontanarsi, un mezzo sorriso ironico sul volto.

“Invece no, che non le dispiace!” lo bloccò Helen. “Dica la verità! Mi sta incolpando anche lei per quello che è accaduto!” Il suo sguardo ora esprimeva ira e frustrazione.

Il volto del pilota, d’un tratto, mutò espressione. Divenne freddo e quasi sprezzante.

“Vuole la verità, dottore?” le chiese, tornando verso di lei. “La vuole davvero?”

Helen arretrò di un passo, nella mente l’immagine recente di quando il giovane le aveva strappato di mano il commlock, immobilizzandola contro la parete, per correre in soccorso di John. Ma, questa volta, lo guardò direttamente negli occhi, affrontandolo.

“Si!” gli disse, ferma.

“Beh, non sta a me giudicare quello che ha fatto”, le disse il giovane, lo sguardo fiammeggiante. “Lei conosce John Koenig quanto e più di me. Sa chi è! Conosce la sua forza d’animo, la sua caparbia onestà. Sa perfettamente che il suo pensiero e le sue azioni sono sempre mirate a difendere e a guidare tutti noi, alla ricerca di quello che è il meglio per ciascuno di noi. Lei sa che ha preso sulle sue spalle con responsabilità e serietà indicibile l’incarico che ha assunto, prima del 13 settembre del 99, anche se tutto questo non rientrava certo nel compito che gli era stato affidato. Sa che fa tutto questo anche a costo della sua vita.” Alan le si avvicinò ulteriormente. “Questo lo sa perfettamente, vero, dottor Russell?” Al cenno di assenso della donna, il giovane proseguì. “Lo sa e, nonostante questo, ha trovato il… il coraggio di ingannarlo. Lui l’ha pregata di credere in lui, e lei l’ha ignorato…” Alan era furente, sprezzante. “No, dottor Russell. Io non la giudico. Lo sta già facendo abbastanza da sé.” Rimase, per un attimo, a guardarla negli occhi, poi si volse e uscì rapidamente dal Centro Medico, diretto al proprio alloggio.

La rabbia e il risentimento di Helen, man mano, mentre Carter parlava, erano scemate per cedere il posto all’angoscia e allo smarrimento. Quando il giovane fu uscito, la donna si appoggiò, sfibrata, al lettino subito dietro di lei, e si raccolse il volto fra le mani, sconvolta. Alan aveva ragione, si disse, totalmente ragione. Come aveva potuto ingannare John? Come poteva, lei stessa, perdonarsi per averlo fatto? Lasciò andare due lacrime che le premevano, prepotenti, contro le palpebre. Era sola, in medicheria. Poteva, per un attimo, lasciarsi andare al dolore che le provocava lo sconvolgimento della sua vita da lei stessa provocato

John Koenig era nel suo alloggio, sdraiato sul letto, le mani intrecciate sotto la nuca, gli occhi fissi al soffitto. Dopo essersi addormentato quasi di colpo, durante la notte, si era risvegliato indolenzito, infreddolito e stordito, intorno alle sei del mattino. Sul momento aveva stentato a riconoscere la situazione, a ricordare quello che era accaduto. Poi, lentamente, aveva ripreso contatto con la realtà. Si era sistemato meglio, sdraiandosi sotto le coperte. Aveva, quindi, ripreso sonno dopo poco, sfinito e sotto l’influsso dei farmaci somministratigli da Mathias. Intorno alle dieci del mattino si era svegliato, riposato almeno nel fisico, più tranquillo. Si era alzato lentamente, i muscoli indolenziti, e si era preparato una leggera colazione con quello che aveva nell’alloggio e del caffé. Poi aveva preso un libro ed era tornato a sdraiarsi sul letto, dove si era immerso nella lettura.

Man mano che passava il tempo gli era risultato sempre più difficile seguire la storia nel volume, assalito dai propri pensieri, dalle tante domande che aveva nella mente, dalle ferite generate in lui dagli avvenimenti degli ultimi giorni. Ora, rilassato nel fisico, ma non nello spirito, seguiva le linee dei pannelli luminosi sul soffitto pur senza vederli, rincorrendo, con la mente, quelle delle striature colorate dell’enorme pianeta che aveva sfiorato la Luna per poter evolvere in un’altra forma di esistenza e civiltà. Aveva avuto paura, alla fine. Era stato assalito dai sui dubbi umani. Quando la lotta, in Sala Comandi, era finita i dettagli dell’enorme pianeta erano andati a riempire, ingombranti e minacciosi, il grande schermo di fronte a lui. Il peso della sua scelta di aver fede in Arra e nelle cose che lei gli aveva spiegato e raccontato, nel preciso compito che egli aveva, scritto nella notte dei tempi, dall’inizio di tutto, lo avevano assalito. E se la sua fosse stata una scelta sciocca, stolta, insensata? Se fosse stata Helen ad avere ragione? Ma era stato un attimo. Poi Aetheria era scomparsa e dal leggero contatto fra i due mondi erano restati solo piccoli incendi provocati da cortocircuiti. Allora, per un attimo, tutti erano rimasti immobili, scioccati, oltre che sollevati e increduli. Era stato in quel momento che il peso della sua solitudine, dell’immensità dei significati più profondi che quel che era accaduto dimostrava, lo avevano assalito, insieme all’oppressione di quella Sala Comandi e al proprio bisogno di solitudine.

“Bip… Bip…” il segnale di richiamo della porta interruppe le sue meditazioni. John si volse, contrariato, prese il commlock sul comodino, e accese la comunicazione. Il volto di Bob Mathias apparve sul piccolo monitor.

“Comandante,” disse il giovane “posso entrare?”

“Venga, dottore”, disse John, e puntò il commlock verso la porta dando il comando per l’apertura.

Mathias venne avanti, nell’alloggio immerso in una luce soffusa. Cercò, con lo sguardo, la figura del comandante. Infine lo trovò, seduto sul letto, avvolto nell’accappatoio.

“Sono venuto a portarle i farmaci,” Disse il giovane medico, mostrandogli un contenitore di plastica rigida con dei blister che spuntavano dal bordo “e a farle una visita di controllo.”

John si alzò dal letto e andò, lentamente, verso il suo interlocutore.

“Grazie, dottore”, disse. “Sono a sua disposizione.”

Bob posò la borsa degli strumenti sul tavolino del salotto e ne estrasse un fonendoscopio, che si pose al collo, e un piccolo analizzatore elettronico.

“Come ha riposato?” chiese a Koenig, che ora gli era di fronte, a un paio di passi di distanza.

“Abbastanza bene, grazie”, mentì John.

Mathias cominciò un esame medico accurato di Koenig che vi si sottopose in silenzio, distaccato e distratto.

Circa mezz’ora dopo Bob, terminata la visita di controllo, porse a John un foglietto con le indicazioni e le posologie dei farmaci che erano stati inclusi nella sua terapia.

“Le ho portato anche un leggero sedativo”, disse. “Se prova dolore e non riesce a riposare lo prenda pure.” Gli porse un flacone con delle gocce. “Ma è assolutamente necessario che lei prenda le vitamine che le ho prescritto e l’antibiotico.”

“Bene, Bob. Lo farò”, disse John, con un vago sorriso accondiscendente. Mathias stava per proseguire, quando il segnale di richiesta di accesso proveniente dalla porta interruppe le sue parole.

John si avvicinò al commpost e aprì l’uscio senza neanche chiedere chi fosse, sul viso dipinta un’espressione contrariata, infastidita ma rassegnata. Sia lui che il medico volsero il capo per vedere chi avrebbe varcato la soglia.

“Ciao, John!” disse Bergman, inoltrandosi nell’alloggio, alquanto a disagio. “Dottore…”

“Buon giorno, professore”, Bob salutò cordialmente lo scienziato.

“Ti occorre qualcosa?” La voce di Koenig era fredda e tagliente come l’acciaio. Gli occhi azzurri che alzò sull’uomo erano gelidi e distaccati, quasi ostili.

“No, John. Nulla.” Bergman si fece avanti, un vago sorriso sul volto, quasi una smorfia. “Sono passato solo per salutarti. Volevo sapere come stai.” Negli occhi del professore si leggeva chiaramente la contrizione, il dispiacere che gli dava l’atteggiamento del suo amico. Ma si capiva anche che lo accettava, quasi fosse un’espiazione per quel che gli aveva fatto.

“Molto bene, Victor”, rispose John quasi con rancore, scostante. “Come vedi sono molto ben assistito dal dottor Mathias e non necessito di nulla.”

“Si, vedo…” Victor era esitante, offeso, ma non adirato. “Allora ti lascio…” Il professore lanciò un’occhiata all’imbarazzato Mathias, sorridendogli un po’ mestamente. Poi tornò a guardare il volto duro di Koenig. “Allora ti lascio riposare…” fece qualche passo in direzione della porta, poi si volse a parlare ancora al comandante. “Passerò un’altra volta”, disse, “forse potremo parlare un po’.”

“Si, Victor. Un’altra volta.” John era risentito, ma molto colpito dalla sofferenza che vedeva dipinta sul volto del vecchio amico. Un lieve angolo della bocca si sollevò in un gesto che voleva essere un vago sorriso e disse al professore che forse… forse John era solo addolorato, ma… “Un’altra volta parleremo, Victor. Ora sono troppo stanco.” Continuò Koenig cercando di mitigare il suo atteggiamento forse troppo duro di qualche momento prima.

“Già…” Victor incurvò le labbra in un vago sorriso e lasciò l’alloggio.

John rimase per un lungo momento a fissare la porta che si era richiusa alle spalle del professore. Quindi si volse a guardare Mathias, fissandolo come se si stesse chiedendo chi era e cosa faceva lì.

“Comandante…” disse il medico.

“Si, Bob?” rispose John, gli occhi improvvisamente velati di tristezza, il volto incupito e sofferto. “Mi dica tutto.”

“Volevo solo aggiungere che ho inoltrato un rapporto alla Sala Comandi sulle sue condizioni cliniche ordinando un esonero per due settimane di convalescenza”, disse Mathias, preoccupato dalle condizioni psicologiche del suo paziente.

“Va bene, dottore”, disse John lentamente, sospirando, mentre si sedeva sul divano, quasi abbandonandovisi, fissando un punto del tavolino, davanti a sé, le mani abbandonate in grembo.

“Dovrà riposare, Comandante. Rimettersi completamente. Altrimenti non potrà tornare al suo lavoro”, continuò Mathias, titubante, indeciso se esprimere o meno a chiari termini quello che era il suo pensiero.

“Non tema, dottore.” John sollevò gli occhi a incontrare lo sguardo del giovane medico. “Farò tutta la convalescenza che vuole…”

Bob fu molto colpito dalla profonda amarezza che lesse negli occhi azzurri del comandante. In altri momenti John Koenig avrebbe protestato, ribattuto, contro un riposo forzato così lungo. Avrebbe fatto di tutto per tornare al lavoro al più presto possibile. Questo nuovo atteggiamento rassegnato e distaccato, indifferente, in quell’uomo generalmente così deciso e volitivo lo preoccupava alquanto. Poteva essere la porta aperta verso l’abbandono e la depressione. No! Bob respinse quell’idea. John Koenig aveva una forte personalità, una mente brillante, portata ad analizzare e affrontare ogni cosa. Certo, ora si sentiva ferito, rifiutato, tradito. Vedeva allontanarsi da sé quelli che erano i suoi punti fermi, a cominciare dalla fiducia e dalla stima che gli alphani riponevano in lui, ma era certo che, guardando attentamente tutto quello che aveva, dentro e fuori di sé, Koenig sarebbe riuscito a emergere, fortificato, da quella amara esperienza.

“Comandante,” gli disse, “Alpha ha bisogno di lei, della sua guida. Deve riguardarsi e riprendere presto il suo posto.” La sua voce era sincera, il suo tono accorato.

John sollevò lo sguardo rivolgendo al giovane un sorriso velato di tristezza, distante, anche se caldo.

“Ne è certo, Bob?” gli chiese. “Che senso ha essere il comandante se i tuoi uomini non si fidano delle tue scelte, del tuo giudizio?” Lo guardò, un sopracciglio incurvato. “La condizione necessaria, ma non sufficiente, per svolgere al meglio il ruolo del comandante, per assumere sulla propria persona la responsabilità della salvezza, della vita di centinaia di persone, per svolgere appieno questo compito, è quella che queste persone si fidino ciecamente di quello che fai, che non le contestino. Capisco il dissentire, ma la scelta finale deve essere di chi ha su di sé la responsabilità, di chi ne ha il ruolo. Se questa fiducia, questa macchina dai meccanismi complicati che è Alpha, si incrina, se si rompe l’equilibrio che deve essere perfetto, fra ogni sua parte, ogni pezzo smette di funzionare in simbiosi, in perfetta armonia con le altre, e si rischia il crollo totale.” Fece un vago gesto con una mano, contraendo le labbra in una smorfia amara. “Io ho sempre cercato di ascoltare il parere di tutti, di pesare con attenzione l’opinione di tutti, e mi sono sempre assunto ogni responsabilità, per quanto gravosa questa potesse essere. Su di me ha pesato ogni insuccesso, ogni morte, ogni problema, l’onere di ogni scelta decisiva. Ma questo, a quanto pare, non è servito. E ora non sono più certo che l’essere io il comandante di questa base abbia senso, che sia un bene, per Alpha. Se gli alphani non ritengono di potersi più fidare di me e delle mie scelte il mio comando potrebbe essere un pericolo per la base. Ci sono, davanti a noi, chissà quante situazioni nelle quali gli ordini vanno eseguiti immediatamente e alla lettera. Se ciò non avverrà perché non ci si fida delle mie scelte si rischierà la sopravvivenza di tutti. Allora sarebbe molto meglio cambiare, sin da subito.”

“Non dica sciocchezze, Comandante!” esclamò Mathias. “Mi scusi se mi permetto, ma sono più che certo che ognuno di noi non vorrebbe nessun altro, come comandante, neanche se fossimo ancora ancorati alla Terra. Ognuno di noi ha una cieca fiducia in lei. Solo che…” la voce del medico era accalorata, infervorata “…è che siamo tutti esseri umani, Comandante, fallibili. Davanti al pericolo concreto possiamo sbagliare, farci prendere dal panico, ma questo non tocca minimamente la certezza che lei è l’unico in grado di guidarci, in questo nostro viaggio nello spazio, attraverso tutte le incognite che ci circondano. Io non riesco neanche a concepire l’idea che il comandante possa essere qualcun altro, e so che ognuno degli alphani la pensa come me!”

“Grazie, Bob”, disse John, con un sorriso mesto. “Rifletterò su quello che mi ha detto e su tutto il resto.”

Mathias annuì e fece per andarsene. Poi si bloccò.

“Comandante,” disse ancora, “ci rifletta con calma, in questi giorni. Si renderà conto che quello che ho detto è vero.”

“Lo farò, Bob. Grazie”, rispose John.

Mathias salutò ancora con un cenno del capo, e lasciò l’alloggio.

John rimase a guardarlo allontanarsi con simpatia e affetto, colpito ma non confortato dalle parole che il giovane medico aveva pronunciato. Era certo della sincerità di Bob, che le sue dichiarazioni corrispondevano perfettamente a quello di cui era perfettamente convinto. Ma questo non placava il suo bisogno di capire, riflettere, pensare e, infine, decidere.

 

Capitolo Terzo

Helen aveva quasi terminato il suo turno al Centro Medico. Si sedette alla scrivania a prese a controllare le schede e le cartelle mediche, firmando i rapporti che aveva aggiornato. Presto sarebbe arrivato Ben Vincent e voleva essere pronta per dargli le consegne. Trascorse le otto ore dalla dimissione sarebbe toccato a Ben il compito di andare da Alan Carter a controllarne la convalescenza. Helen diede uno sguardo al monitor collegato al biotester da polso di Alan. Tutto sembrava andare perfettamente. Eppure la mente della donna stentava a concentrarsi su quello che faceva. Pensava agli avvenimenti delle ore precedente. La sua attenzione veniva invariabilmente calamitata da essi, per quanto si sforzasse di mutare le cose. Come promesso, Bob Mathias era passato da lei a parlarle delle condizioni di John Koenig. Era un po’ imbarazzato quando, dopo averla tranquillizzata circa le condizioni fisiche del comandante, le aveva raccontato di aver avuto una conversazione con lui e di aver ricevuto, da questa, una sensazione allarmante. Helen gli aveva chiesto i particolari della conversazione, ma Bob si era rifiutato. Le aveva detto che, più che altro, si trattava di una conversazione privata fra due uomini, non era stato nulla di ufficiale e che quindi non riteneva opportuno rivelare le confidenze del comandante a nessuno.

“Mi perdoni, dottor Russell”, le aveva detto. “Non è per lei, ma mi sembrerebbe di tradire la fiducia del comandante.”

“Capisco, Bob.” Aveva risposto lei, chinando per un attimo il capo.

“E poi sono quasi certo che questo periodo di convalescenza gli farà bene e riuscirà a ritrovare la tranquillità e la sua volontà di affrontare e superare i problemi.”

Alle parole del collega, accompagnate dalla calma tipica del suo carattere, la donna si era alquanto tranquillizzata. Ma ora, mentre leggeva i rapporti della giornata, Helen Russell era sempre più preoccupata e allarmata. Il suo pensiero correva sempre a quello che Mathias le aveva detto, ma soprattutto a quello che non le aveva detto e la sua ansia cresceva sempre più. Doveva andare da lui, controllare di persona! “Stai cercando una motivazione che ti giustifichi, Helen Russell?” pensò. “Hai bisogno di una scusa per concederti di andare da lui, di valutare di persona le sue condizioni, per tranquillizzarti?” Decise che, quali che fossero le vere ragioni che la spingevano, doveva andare da lui. Doveva cercare di capire cosa si agitava veramente nella mente di John Koenig, se il ponte che c’era fra loro due si era spezzato per sempre, se egli aveva cancellato, lavato via dalla loro esistenza, qualunque cosa detta o non detta, fra loro, tutto quello che c’era mai stato. Doveva, più ogni altra cosa, sapere se c’era qualche altra cosa, di più grave ancora, che Mathias le aveva taciuto.

Fu con uno strano peso sul cuore, un morso che le bloccava il respiro all’altezza dello stomaco, che, dopo aver dato le consegne a Ben Vincent, si allontanò in fretta dal Centro Medico, inoltrandosi nei corridoi che conducevano all’alloggio del comandante.

John Koenig sedeva, rilassato, contro lo schienale, su un divano della zona living del suo alloggio. Indossava la vestaglia blu, di pail, sul pigiama, stretta intorno al torace. Sulle gambe accavallate aveva delle stampe da computer. Altri fogli li reggeva fra le mani, scorrendoli con lo sguardo, immerso nella lettura. Sentiva i pensieri ronzargli nella mente, quasi fossero un rumore di sottofondo, costante, pacato, ma distinto. Ma sapeva anche che non era il momento di lasciarli andare in libertà. Doveva prima far sbollire le sensazioni generate, nell’immediato, dagli eventi, quello strano insieme fra smarrimento, freddo, profondo e interiore distacco, ma anche rabbia, altrettanto profonda e sorda. Leggere, immergersi in una lunga storia che lo occupasse a lungo, lo avrebbe sicuramente aiutato ad attendere quello che sarebbe stato il momento giusto. Nella sua mente sentiva ripetersi le parole misteriose di Arra, le cose che lei gli aveva svelato riguardo al destino di Alpha, ma anche quello che ella gli aveva taciuto. Il suo desiderio di capire, decodificarne il significato profondo, cresceva di attimo in attimo. Ma, istintivamente, sapeva di dover attendere e lasciar sedimentare anche questo, nella sua mente, fino a quando tutto, nel suo insieme, non gli sarebbe apparso più chiaro e distinto, dai contorni ben delineati, e avrebbe saputo che era giunto il momento giusto per fermarsi ad affrontare i propri fantasmi e i misteri che gli si presentavano davanti.

Il bip bip proveniente dal commlock interruppe la sua lettura e le sue meditazioni. Non ebbe bisogno di accendere la comunicazione per sapere di chi si trattava. Improvvisamente fu assalito da un profondo senso di nostalgia e di mancanza, di rimpianto, e fu tentato di dimenticare tutto, superare ogni altra sensazione, scordare quello che era accaduto e quello che si agitava nel suo animo. Ma, nello stesso istante, seppe che questo non sarebbe valso a superare quello che si annidava dentro di lui e che, prima o poi, sarebbe tornato a emergere, aggravato sotto forma di rancore. Cedere ora ai propri sentimenti di affetto o di qualunque altro tipo nei confronti di Helen Russell avrebbero solo sollevato il suo stato d’animo di quel momento e null’altro, e lui non poteva permettersi di rischiare la tranquillità psicologica ed emotiva futura, di entrambi, per un bisogno momentaneo di cedere alla propria debolezza. Prese il commlock dal posto accanto al suo, sul divano, e lo puntò verso la porta, con un sorriso mesto e rassegnato, dando il comando per l’apertura.

Un istante e Helen Russell fu entrata. Nonostante quello che si era detto, quello che si era proposto, quando la vide entrare, titubante, quasi timorosa, eppure decisa, John non potè impedirsi di essere assalito da un moto di tenerezza che, per un attimo, gli illuminò e addolcì il volto.

Anche se il sorriso scomparve rapidamente dal volto di John Koenig, Helen lo notò e se ne sentì rincuorata. Forse non tutto era perduto, si disse, forse…

La porta, al segnale emesso dal commlock di John, si chiuse alle spalle di Helen che, per un attimo, si volse lievemente, come a volersi accertare di quello che stava accadendo dietro di lei. Poi la donna tornò a voltarsi verso il comandante e andò lentamente nella sua direzione.

“Come stai, John?” gli chiese, quando fu a pochi passi da lui.

Il tono preoccupato e dolce della voce di lei tornarono a intenerire l’animo del comandante. John si rilassò e le rivolse un vago sorriso, anche se in esso non vi era la parvenza di quello che, in passato, egli le aveva espresso con lo stesso gesto.

“Sto bene, Helen. Non hai motivo di preoccuparti per me”, le disse, calmo.

“Stai mangiando a sufficienza? Stai prendendo i farmaci che Mathias ti ha portato?” continuò ancora Helen, teneramente.

“Si. Mi sto curando e riposando”, le rispose l’uomo brevemente.

“Posso sedermi?” chiese Helen avvicinandosi e indicando, con un cenno del capo, il posto sul divano accanto a quello occupato dall’uomo.

“Fai pure.” John prese il commlock e lo spostò, rendendole la seduta libera.

“Cosa stai leggendo?” chiese ancora Helen, innervosita da quello strano clima fra il familiare e l’impersonale.

“Ho scaricato dalla biblioteca centrale una copia di Guerra e Pace, di Tolstoy, e ne ho stampata una parte.”

“Non l’avevi già letto?”

“Si, ma ho bisogno di qualcosa che mi tenga impegnato a lungo, che sia abbastanza fantastico da catturare l’attenzione e che sia voluminoso. I romanzi di Tolstoy lo sono.” Fece una smorfia amara. “Credo che il prossimo sarà Anna Karenina.”

“Io… mi chiedevo se noi…”

“No, Helen”, la interruppe John bruscamente, ma con gentilezza. “Parleremo e chiariremo tutto quello che c’è da chiarire, ma non ora. Ora ho bisogno di chiarirmi prima con me stesso e anche questo è molto difficile e molto laborioso.”

“Capisco…” Helen abbassò il capo, delusa e amareggiata ma non priva di una lieve speranza, dentro di sé.

John sentì il bisogno quasi istintivo di confortarla. Alzò una mano in un movimento rapido, come per prendere quella di lei, abbandonata sul divano accanto a lui, ma si trattenne, la chiuse a pugno con forza e la ritrasse.

“Ho bisogno di rasserenarmi e tranquillizzarmi, Helen”, le disse, “prima di poter affrontare le tante cose che sono successe e anche quello di cui… non ho avuto il modo di parlarti.” Un moto doloroso contrasse il volto dell’uomo, al ricordo delle circostanze che avevano vissuto quando aveva cercato di convincere i membri del suo staff direttivo di quello che diceva, quando aveva provato a dare loro un ordine nel quale credeva ciecamente, nell’urgenza del momento “date le circostanze”.

Helen comprese quello che si agitava nella mente di John in quel momento e ne avvertì, rinnovata, la ferita. Sospirò silenziosa, poi cercò di cancellare dal suo animo quelle sensazioni negative e continuò:

“Ti riferisci al tuo incontro con Arra?”

“Esatto, Helen”, rispose lui. “Ma ora non me la sento di discutere neanche di lei.” Per un attimo il suo sorriso, anche se triste, parve quello aperto e caldo di sempre. Poi il suo volto tornò a incupirsi, a nascondersi sotto un velo di indifferenza. “E ora vorrei continuare a leggere e ad ascoltare la mia musica, Helen”, le disse. “Ti ripeto, non hai motivo di preoccuparti per me.” E riprese fra le mani i fogli che teneva abbandonati in grembo, ricominciando a leggere come se lei non fosse lì.

A Helen non restò altro da fare che alzarsi e abbandonare la stanza, dopo un’ultima occhiata dubbiosa e dolente all’uomo che, seduto sul divano, sembrava completamente immerso nella lettura, distante da lei.

John ne seguì i movimenti con la coda dell’occhio, sforzandosi di non alzare il capo, di non farle intendere che era molto colpito dal dolore che vedeva dipinto sul suo volto, dalla profonda tristezza che leggeva in lei.

Quando la porta si fu chiusa alle spalle di Helen, la tensione abbandonò il corpo di John che lasciò ricadere i fogli, ricoprendosi il volto con le mani, ricacciando indietro le lacrime di rabbia e rimpianto che gli salivano agli occhi.

 

Capitolo Quarto

John Koenig spense il computer e il monitor. Era stanco di guardare film e concerti. Aveva lasciato la sua mente vagare abbastanza, in quella settimana. Eccetto che per le visite di controllo di Mathias, era stato completamente solo con sé stesso, in quei giorni, come oramai non gli capitava da tanto tempo. La cosa non gli era affatto dispiaciuta. L’aveva cercata e coltivata, quella solitudine, della quale, in un certo qual modo, aveva davvero bisogno: che da sempre, per lui, era compagna di riflessione, di pensiero, adiuvatrice e amica. Ora sentiva che era giunto il momento di guardare in volto gli avvenimenti che lo avevano così dolorosamente colpito, sia intimamente che fisicamente. Era giunto il momento di comunicare con qualcuno, di confrontarsi con un interlocutore oltre che con sé stesso. Non ne aveva parlato con nessuno, dalla riunione del personale di comando nella quale aveva subito l’inganno da parte dei suoi… collaboratori. Era giunto il momento di esprimere alcune cose ad alta voce, di confrontarsi anche col suono delle cose che aveva vissuto e di quelle che lo angosciavano. Rapidamente fece una doccia, indossò biancheria e divisa pulita, poi uscì dal suo alloggio, diretto a quello di Alan Carter. Era dalla notte del ricovero che non lo vedeva, ma oramai doveva star meglio anche lui e, forse, anche lui sentiva il bisogno di parlare dell’esperienza che avevano condiviso.

Percorse lentamente i corridoi di Alpha, dopo la lunga reclusione nel suo alloggio, così inusuale in lui, sempre impegnato nel suo lavoro. Quasi gli sembrava di essere su una nuova base, o di rivedere per la prima volta tutto quello che lo circondava dopo mesi di lontananza. Si guardava intorno, quasi titubante, come a voler decifrare e riconoscere gli oggetti che incontrava, le cose e anche le persone che, incrociandolo, lo salutavano. Finalmente, dopo un tempo che gli sembrò lunghissimo, giunse davanti alla porta dell’alloggio del suo capo-pilota. Schiacciò il pulsante del pannello laterale che chiedeva l’accesso. Un attimo e l’uscio si spalancò. John avanzò lentamente, inoltrandosi nell’alloggio immerso in una luce bassa e soffusa. Cercò con lo sguardo la familiare figura di Carter e, infine, la trovò. Il giovane era seduto alla sua scrivania, proteso verso il monitor, intento a seguire qualcosa che avveniva sullo schermo davanti a lui.

“Vieni avanti, Paul”, disse il giovane, senza distogliere la propria attenzione dal monitor. “Un minuto ancora e avrò sterminato la flotta avversaria.”

“Faccia con comodo, Alan”, disse John, con un sorriso divertito. “Aspetterò.”

“Comandante!” Carter sollevò lo sguardo di scatto, riconoscendo la voce del suo interlocutore. “Venga! Venga avanti!” Gli andò incontro, cordiale. “Credevo che fosse Paul.”

“L’avevo intuito.” John gli sorrise, caldamente. “Come sta, Alan?” gli chiese battendogli una mano sulla spalla.

“Molto meglio, Comandante! Anche se devo confessarle che mi annoio parecchio. Lei, piuttosto… Ho chiesto sue notizie al dottor Russell tutte le volte che è venuta a visitarmi…” Alan stava per aggiungere altro ma si interruppe alla vista della smorfia contrariata che incurvò la bocca del comandante e che ne rabbuiò, rapidamente, il volto.

“Molto meglio, Alan”, disse John, cercando di non far trasparire il proprio disagio.

“Ne sono contento, Comandante”, rispose Carter. Poi il suo volto assunse un’espressione fra il buffo e il contrariato. “Non so cosa fare, tutto il giorno. Oramai sto benone ma non vogliono lasciarmi riprendere il mio lavoro.”

“E’ un’occasione piuttosto rara, su Alpha.” John battè una mano sulla spalla del giovane interlocutore. “Se la goda, finché dura!” lo incoraggiò.

“Già”, borbottò con un sorriso Carter, “ma è dura! Lei cosa fa per passare il tempo?”

“Beh, leggo molto…” John fece un paio di passi, avanzando nell’alloggio, “penso, ascolto della musica. Tutte cose per cui devo, generalmente, faticare a ritagliarmi degli spazi.”

“Anche io sto pensando molto, Comandante”, disse Alan, tornando serio. “Ci sono tante cose che mi si agitano nella mente e che vorrei chiarire.”

“Suppongo che si tratti, in gran parte, di quello che lei e io abbiamo vissuto, vero?”

“Proprio così!” Alan si portò una mano alla bocca, pensieroso. “Comandante,” disse poi, “credo proprio di avere bisogno di parlarne con qualcuno, di capire meglio e mettere a punto alcune cose.”

“Anch’io, Alan”, disse John, serio.

“Allora preparo del buon caffé per entrambi. Ci aiuterà, non crede?”

John accennò a un breve sorriso.

“Credo proprio di sì” si disse.

Carter annuì, negli occhi un’espressione intenta e un po’ distante.

“Mi dia un attimo per prepararlo”disse, e si allontanò diretto alla zona cucina.

Mentre il giovane trafficava con gli oggetti necessari, John si avvicinò alle finestre che davano sull’esterno. Quando vi fu giunto, appoggiò le mani al davanzale, guardando in alto, verso l’Universo intorno a loro, immerso nei suoi pensieri. Quasi non si accorse di Alan che gli si avvicinava con una tazza di caffé per mano.

“Comandante,” lo chiamò il giovane, “amaro e nero, come piace a lei” disse, porgendogliene una.

John si volse, per incontrarne la sguardo, sul volto un sorriso caldo, ma malinconico.

“Grazie, Alan”, disse, prendendo fra le mani la tazza colma di liquido fumante. La portò alle labbra e bevve, lentamente, un lungo sorso di caffé, mente tornava a volgere lo sguardo, brevemente, all’universo nel quale stavano navigando.

“Comandante”, disse Alan, dopo un attimo di esitazione.

John tornò a guardarlo in volto, interrogativo.

“Paul mi ha detto quello che ha fatto per me” continuò il pilota, esitante. “Intendo dire… sa, quando è venuto fuori, dopo l’esplosione, a cercarmi, a portarmi in salvo, rischiando la sua vita anche se tutto faceva credere che io fossi morto, anche se tutti le consigliavano di desistere.” Esitò, ancora per qualche attimo, sempre più imbarazzato. Non era cosa facile, per lui, che in genere dimostrava quello che provava con le azioni più che con le parole. “Insomma, Comandante”, continuò, “volevo ringraziarla per tutto quello che ha fatto per me, compreso l’aver ritardato la detonazione delle cariche nucleari, sull’asteroide…”

“Parla proprio lei, Alan?” rispose John, con una vaga smorfia che voleva essere un sorriso. “Lei che mi è stato accanto, contro tutti, in diverse circostanze, compresa quella del nostro incontro col pianeta Zenno, quando io ero in coma…”gli sorrise con affetto. “Non deve ringraziarmi, Alan. Ho fatto solo quello che ero convinto di dover fare.” Bevve un sorso del caffé che gli aveva portato il giovane e si volse a guardare fuori, fingendo distrazione. “E poi, sull’astronave di salvataggio c’era anche Paul.”

“Si, lo so. Ma lui mi ha detto che lo ha fatto perché la sua caparbia volontà di venire a cercarmi lo ha fatto sentire irritato e anche in colpa. Non poteva lasciare che lei venisse da solo, se voleva potersi dire mio amico… e anche suo…”

John si volse di scatto, punto da quell’ultima osservazione. Avrebbe voluto replicare, controbattere, ma si rese conto che, facendolo, avrebbe ferito i sentimenti di Alan, e questo proprio non lo voleva. Così respirò profondamente, e replicò.

“Per qualunque motivo l’ha fatto, Alan, lui c’era”, disse. “E…” stava per aggiungere che era già molto di più di quello che aveva fatto per chiunque, ma si trattenne. Non era giusto. Paul non lo meritava e quella frase sarebbe stata generata solo dal risentimento e questo lui non lo voleva.

Alan sorrise, poi seguì lo sguardo del comandante che tornava a volgersi verso l’esterno. Bevve un lungo sorso di caffé e poi posò la tazza sul davanzale.

“Mi sconvolge quasi l’idea di aver avuto questo… appuntamento… con la vita, con la storia, da millenni”, disse, improvvisamente, John. “L’idea di come le sorti della vita di esseri che popolano l’universo siano così strettamente legate fra loro, che ciò che accade in un punto remoto dello spazio sia destinato a influenzare, invariabilmente e in maniera totale, l’esistenza di altri popoli e di altri pianeti, posti in zone completamente diverse di un universo che, forse, non è neanche lo stesso, mi lascia quasi senza fiato.” Si volse a guardare Alan, ma come se in quello del giovane vedesse il volto di tanti altri, come se penetrasse, con lo sguardo, oltre la persona del giovane pilota, per trovare tutto quello che era ansioso di sapere. “Pensi, Alan, è come dire che la catastrofe che ha lanciato la Luna nello spazio, le beghe politiche di Simmonds e della Commissione Spazio… tutto, assolutamente tutto quello che abbiamo vissuto sinora, e chissà quanto altro ancora, era scritto… predestinato, preordinato. Tutto è accaduto e accadrà per…” John tornò a guardare, quasi sognante, l’immensa distesa luminosa di stelle e galassie, fuori da Alpha “…per seguire un volere già scelto, un disegno già tracciato… nella notte dei tempi, dall’ordine materiale delle cose, da… una sorta di intelligenza cosmica… o da Dio, se vuole.”

“Già… è sconvolgente…” Alan scrutò il profilo intento di Koenig. “Mette paura, un’idea del genere. Potrebbe essere… una sorta di prova velata dell’esistenza di un Dio… un essere superiore…” Scosse il capo, smarrito. “Non saprei se esserne rassicurato… o impaurito…” mormorò, avvicinandosi ulteriormente al vetro e guardando fuori.

“Ha ragione, Alan”, disse John, “quasi mi sento svuotato, ora, privo di una meta, di uno scopo. L’idea di aver assolto a un compito del calibro di quello che abbiamo avuto rischia quasi di togliere importanza a quello che ancora sarà…” John si volse e si diresse, lentamente, verso il centro della stanza. “Ma poi penso che, qualunque cosa sarà di noi avrà ripercussioni in tanti altri mondi e su tante altre forme di vita, così come sarà concatenato a quello che è il destino di chissà quanti e quali altri mondi, quante altre vite…e allora sento di nuovo che siamo parte di un piccolo ma grande granello in un universo ricco di fascino, di mistero, di meraviglie e di cose da conoscere e da imparare… e questo mi fa sentire sollevato…”

Alan lo seguì verso la zona living e gli indicò un divano. Quando il comandante si fu accomodato, il giovane pilota gli si seddette accanto.

“Già. Questo ci proietta verso una dimensione più serena. Non siamo più sperduti, a causa di uno strano e imprevedibile incidente, lanciati in un universo estraneo e ostile, ma diventiamo paragonabili a una cellula che viaggia fra altre cellule appartenenti a un grande organismo” disse il giovane pilota, la voce bassa.

“Già! Proprio così!” concordò John.

I due uomini terminarono silenziosamente il caffé contenuto nelle loro tazze e rimasero a conversare a lungo fino a quando la loro conversazione scivolò, lentamente, verso argomenti più leggeri e sereni. Stavano ridendo di una storiella raccontata da Alan quando il segnale di richiamo della porta suonò attirando la loro attenzione. Alan, quasi distrattamente, diede, col commlock, il comando di apertura, continuando il racconto che stava facendo a John e ridendo con lui.

“Bene!” disse la voce di Helen Russell. “Vedo che siete entrambi più allegri!” La donna avanzò verso la zona living con un sorriso abbastanza forzato sul volto imbarazzato. Non le era sfuggito il fatto che la risata allegra si era spenta di colpo, sul volto di John, nel momento stesso in cui si era accorto che il nuovo arrivato era lei.

Alan invece era ancora allegro anche se si era accorto sia dell’imbarazzo che della freddezza che dominavano il comportamento degli altri due.

“Venga avanti, dottore!” disse, cordialmente, il pilota “Vuole una tazza di caffé?”

“No, grazie, Alan” disse lei, accompagnando le parole con un gesto della mano. “Sono solo passata a controllarla e vado di fretta.”

“Bene, allora…” John intervenne nella conversazione alzandosi e sistemandosi il commlock nella cintura. “Io torno nel mio alloggio a riposare un po’.”

“Come stai, John?” chiese Helen, sforzandosi di essere fredda e professionale e di nascondere sia l’emozione che la tensione che provava. Non si era aspettata di trovare lì John e, vedendolo, era stata costretta a controllare e a sopire sensazioni che non voleva né sapeva, al momento, comprendere.

“Molto meglio, grazie.”

Lo sguardo dell’uomo incontrò, quasi senza volerlo, quello di Helen. In quel momento, per un attimo, le difese di entrambi si abbassarono. Entrambi lessero, nell’altro, varie e mutevoli tracce di un unico tormento. Ma fu un attimo. Poi le maschere tornarono a essere sorrette con forza e ostinazione da entrambi.

“Mi fa piacere” disse Helen, debolmente.

“Mathias passa regolarmente a controllare la mia convalescenza” disse John, con analogo tono di voce.

“Già. Vedo sempre i suoi rapporti.”

“Già… E’ tuo dovere…”

John distolse lo sguardo, il volto di nuovo cupo, indurito, di nuovo amareggiato.

“Io torno nel mio alloggio” disse. “Arrivederci, Alan. Stia bene.”

“Grazie, Comandante. Stia bene anche lei” rispose Alan, con calore.

Poi John rivolse un ulteriore sguardo nervoso ma anche intenso a Helen. Chinò il capo in segno di saluto, quindi si volse e, senza dire altro, il corpo eretto ma il capo lievemente chino, lasciò l’alloggio.

Quando la porta dell’appartamento di Alan si fu chiusa alle sue spalle, John si soffermò per un attimo, quasi a riprendere le forze che gli erano state necessarie per affrontare l’improvvisa e inaspettata presenza di Helen nel mezzo del suo incontro con il pilota e che ora gli occorrevano per affrontare la tempesta di sensazioni che si agitavano dentro di lui, il lungo cammino che sapeva di dover ancora affrontare, nel proprio intimo, per ritrovare un punto fermo, un appoggio che gli permettesse di riprendere respiro e guardare avanti per un tempo più lontano dell’immediato. Parlare con Alan, confrontarsi con lui, lo aveva certamente fatto sentire meglio. Ma l’incontro con Helen, il grande imbarazzo, la tensione così evidente fra di loro, lo avevano fatto ripiombare in una snervante sensazione di conflitto interiore, di agitazione e di confusione che gli era familiare, oramai, da giorni. Scosse il capo e si sforzò di riprendere il cammino, diretto al proprio alloggio. Camminava lentamente per i corridoi di Alpha, quasi trascinando stancamente un passo dietro l’altro, il capo lievemente chino. Non si accorse dei passi rapidi e delle risate leggere che si avvicinavano, tanto era immerso nei suoi pensieri.

“Comandante!” esclamò, allegramente, una voce maschile. “Come sta?”

John sollevò il capo a guardare la fonte di quella voce e incontrò lo sguardo acceso di Paul Morrow. Il giovane, di fronte a lui, era in attesa della sua risposta, lo sguardo allegro, sinceramente contento dell’incontro. Con un braccio circondava delicatamente le spalle di Sandra, anche lei visibilmente contenta. Per un attimo John fu tentato di lasciarsi trascinare dalla loro allegria, dalla gioia che emanavano, di forzarsi a dimenticare il dolore che avvertiva, dentro di sé, fra lo stomaco e l’anima, e di tornare a quel rapporto familiare e cordiale che aveva con loro prima… prima di... Ma la ferita era ancora aperta e proprio non riusciva ad abbandonarsi a quel desiderio.

“Ci è mancato, Comandante!” disse Sandra, gli occhi neri accesi e brillanti.

“Sto meglio, grazie.” Il tono della voce di John era marcatamente freddo. “Presto sarò in grado di tornare al mio posto, così i vostri turni potranno riprendere la normale routine.”

Il sorriso si spense sul volto di Sandra, quasi avesse ricevuto uno schiaffo a contraccambiare la sua gioiosa allegria.

“Non intendevo quello, Signore,” disse, rattristata, facendosi istintivamente più vicina a Paul.

Il giovane la strinse a sé, quasi a volerla proteggere, poi alzò di nuovo lo sguardo a incontrare quello del comandante.

“Noi… siamo contenti di vedere che sta bene, Comandante” disse. “Riposi pure tutto il tempo che è necessario per la sua guarigione. Non ci pesa affatto coprire i suoi turni.”

Anche sul volto di Paul era evidente il disagio e il dispiacere per l’atteggiamento freddo e distaccato dell’uomo che aveva di fronte. Il silenzio scese fra i tre, che rimasero a guardarsi, mutamente, scrutandosi dubbiosi. Poi, dopo qualche istante, Paul riprese: “Noi stiamo andando a tenere compagnia ad Alan” disse. “Perciò…”

“Stia bene, Comandante”, intervenne Sandra, lo sguardo un po’ timoroso ma sincero.

John chinò il capo, in segno di assenso e si allontanò senza aggiungere altro.

I due giovani si volsero per seguirne i movimenti ora svelti e decisi. Erano titubanti, disorientati da quell’atteggiamento così distaccato, quasi iroso, di quell’uomo che, invece, era stato sempre gentile, comprensivo, amichevole. Quando questi fu scomparso oltre un angolo, Paul e Sandra si guardarono brevemente negli occhi, poi proseguirono il cammino diretti all’alloggio di Alan.

John, voltato l’angolo, accelerò il passo. Era furente, ora, arrabbiato con i due giovani per quell’atteggiamento cordiale che contrastava con l’ultima immagine che aveva di loro, furente con sé stesso per aver fatto capire loro i suoi sentimenti, per aver scaricato su altri quelli che erano i problemi che gli impelleva risolvere. Quando fu giunto nel suo alloggio, si chiuse la porta alle spalle, bloccandola con il codice di sicurezza e si guardò intorno quasi disorientato. L’ambiente era quasi completamente immerso nel buio, cupo. John si sentì oppresso da quell’oscurità, da quelle poche luci soffuse, dal disordine che, stranamente, regnava sulla sua scrivania. Cosa gli succedeva? Stava diventando scontroso e misantropo? Non si piaceva e non si riconosceva in quell’uomo cupo e rancoroso che aveva parlato freddamente a Paul e a Sandra, che aveva spento bruscamente i loro sorrisi cordiali. Eppure non riusciva a smorzare la sofferenza e la rabbia che provava all’idea dell’ostilità furente che questi gli avevano riservato durante l’ultima emergenza. Non si riconosceva in quell’uomo cupo, ma sentiva estraneo, in quel momento, anche quello cordiale e amichevole che era stato fino a qualche settimana prima.

John si trascinò stancamente fino a una poltrona e vi si lasciò cadere sopra. Si chinò su sé stesso, sconfortato, e sprofondò il volto fra le mani. Come uscire da quella situazione che lo faceva stare così male? Come superare tutte quelle sensazioni così vive che sentiva dentro di sé, che lo spingevano verso opposte direzioni?

 

Capitolo Quinto

Helen Russell guardò l’orologio lampeggiante sul piccolo monitor del commlock che teneva poggiato sulla base caricabatteria della sua scrivania. Erano le 21,33. Era molto tardi, ma anche molto presto. Più di quanto si era aspettata. La notte che aveva davanti a sé le sembrava interminabile. Ben Vincent aveva chiesto un breve periodo di riposo in quanto, a una visita medica di controllo, era risultato stressato e i suoi valori di base ne erano influenzati al punto da risultare lievemente alterati. Così Helen, Bob e Raul si erano divisi anche i suoi turni. Lei aveva, concordemente con i suoi colleghi, diviso il servizio in doppi turni così da avere, praticamente, un giorno intero di riposo fra un turno e l’altro. Ora Helen aveva davanti a sé l’intera nottata da trascorrere, a meno di emergenze, rivedendo i rapporti, leggendo un libro oppure guardando un film sul computer. Non vi erano, infatti, pazienti in degenza nella zona ospedale. Questo non l’avrebbe aiutata a vincere i propri pensieri, diretti unicamente verso una persona, o lo strano senso d’ansia che sembrava non volerla abbandonare. Seduta alla sua scrivania cercava di concentrarsi sulla lettura di un testo di medicina che aveva dinanzi, ma senza successo. Le tornavano alla mente i pochi minuti in cui John e lei si erano incrociati nell’alloggio di Alan. La tensione era talmente fitta che avrebbe potuto tagliarsi con un coltello, tangibile e percepibile come l’aria fra di loro. Helen avvertiva la doppia natura di quella tensione e di quell’imbarazzo e sapeva che questo non avrebbe portato a nulla di buono, se non si fosse risolta in breve tempo. Ma John non sembrava ancora disposto a guardare in viso la reale natura di ciò che vi era alla base o, almeno, non sembrava disposto a farlo parlandone con lei, in sua presenza. Inoltre Helen ricordava quello che era accaduto quando, qualche ora prima, mentre lei stava riponendo gli strumenti nella borsa, nell’alloggio di Alan erano giunti Paul e Sandra. I due erano visibilmente turbati. Dietro sua insistenza le avevano raccontato del loro incontro con John Koenig e del comportamento freddo e scostante di quest’ultimo. Avevano quindi espresso, oltre al loro disappunto, il loro sconcerto. Mai il comandante si era comportato così. In gravi circostanze lo avevano veduto pensieroso, nervoso, irascibile, anche furente, ma mai così sprezzante. Neanche di fronte alle sparate inopportune e inadeguate di Simmonds si era comportato così. Sì, si disse Helen. I due giovani avevano ragione. John destava tutta la sua preoccupazione. Senza dubbio, era in un momento della sua esistenza ancora più cruciale di quello che aveva seguito il distacco dall’orbita terrestre e lei era molto allarmata. Sentiva che poteva accadere qualcosa di decisivo e definitivo da un momento all’altro, ma non sapeva cosa, e questa situazione le procurava un continuo stato d’allarme. Lei non poteva accettare l’idea di non poter far nulla per capire e affrontare quel problema insieme a John, prevenirne le ipotetiche gravi conseguenze. Qualcosa doveva fare! Improvvisamente non potè più rimanere lì, a fingere di riuscire a seguire quanto era scritto nel libro che aveva dinanzi, mentre non riusciva neanche a leggere due parole una di seguito all’altra, tanto era distratta e preoccupata.

“Kay,” disse, chiamando l’infermiera intenta nel riordino degli strumenti su un carrello chirurgico, “io mi assento per qualche minuto.”

“Bene, dottor Russell”, rispose la ragazza, sollevando gli occhi sorridenti verso di lei.

“Mi chiami se insorge un’emergenza” continuò Helen, dirigendosi verso la porta, mentre infilava il commlock nella cintura.

“Non si preoccupi, dottore” disse la giovane. “Sarà una notte tranquilla. Si allontani senza pensieri.”

Helen ricambiò il sorriso distrattamente e lasciò sia l’infermiera che il Centro Medico.

In pochi minuti fu davanti alla porta dell’alloggio di John Koenig. Esitò per un istante, prima di decidersi a bussare. Era davvero molto tardi e John era ancora convalescente, ma non poteva proprio tornare indietro, non ora, non senza avergli parlato e provato a capire di più, a riaprire quella porta di comunicazione che prima era così spontanea e naturale fra di loro. Sospirò, cercando di tenersi calma e tranquilla, e si decise a premere il tasto per la richiesta di accesso. Attese pazientemente la risposta che sembrava non arrivare mai. Poi, mentre stava per ripremere il pulsante, la voce di John si fece sentire.

“Si?” era stanca, cupa, quasi strascicata.

Helen ebbe timore di aver interrotto il suo sonno, o che egli trovasse qualche scusa per non aprirle.

“John…” disse, esitante.

Senza attendere altre parole la porta si aprì davanti a lei, lasciandole libero accesso all’alloggio avvolto in una tenue luce soffusa, quasi buio. Helen avanzò silenziosamente, titubante, cercando con lo sguardo la figura del comandante, stentando ad adeguarsi alla semioscurità.

“Vieni avanti, Helen” disse la voce di John, sempre stanca, ma con una punta d’ira appena percettibile.

Helen volse il capo, seguendo la provenienza del suono, e scorse il comandante. Era seduto alla sua scrivania, il busto leggermente chino, i gomiti poggiati sul ripiano, su un cumulo di fogli sparsi davanti a lui, e fissava, intento in un pensiero distante, un vasetto in plastica nera, rigida, pieno di penne.

Helen fu molto colpita dalla postura di quel corpo, metà abbandonato e metà pronto a scattare, metà rilassato e stanco e metà teso e nervoso. Anche il volto di John esprimeva le stesse sensazioni manifestate dal suo corpo. Era amaro, sfiduciato. Helen, senza staccare gli occhi dall’uomo che aveva davanti, avanzò verso di lui. Un paio di passi lenti, leggeri, quasi ovattati, ma bastarono ad attirare l’attenzione del comandante.

John sollevò lievemente il capo. I suoi occhi si fissarono sulla figura titubante della donna, negli occhi di lei, quasi smarriti eppure decisi. Per qualche attimo il suo sguardo azzurro si pose in quello di lei e il contatto comunicativo, così istintivo e aperto, fra loro, fu acceso di nuovo. L’evidente preoccupazione sul volto di Helen, nel brillio dei suoi occhi, intenerì il comandante ed egli sentì forte il desiderio di confortarla. Ogni muscolo del suo corpo fu posto in contrasto con sé stesso, combattendo fra i due desideri contrastanti, ma egualmente intensi, di andarle accanto, di stringerla fra le braccia e sollevarla da ogni pena, e quello di correre via da lei, lontano, di scordarne l’esistenza, il tradimento e la profonda ferita inferta alla fiducia che riponeva in lei, all’estraneità ostile della donna che gli aveva somministrato un sonnifero, per poterlo rinchiudere, prigioniero, in quello stesso alloggio, mentre lo rassicurava sulla propria fiducia e sulla propria disponibilità. Chiuse gli occhi, a voler cancellare entrambe le opposte sensazioni che lo dilaniavano e che non riusciva a superare. Poi, improvvisamente, si drizzò e riprese l’operazione la cui necessità lo aveva condotto alla scrivania.

“Pazienta ancora un po’, Helen”, le disse, la voce dura. “Volevo mettere un po’ d’ordine in questi appunti e in queste stampe.”

“Fai pure con comodo, John” disse lei, più formalmente di quello che aveva inteso fare. Non le era sfuggito il correre rapido delle opposte emozioni, nello sguardo di John, ed era molto titubante e incerta sul da farsi. Attendeva di vedere le successive azioni del comandante, per potersi muovere a sua volta e cercare di rispettare il muro delle difese che l’uomo aveva posto dinanzi a sé, per poterlo aiutare. “Se permetti potrei preparare del caffé, mentre finisci” disse ancora.

“Si, buona idea!” La voce di John era diventata fredda e distante, ora. “Sai dov’è l’occorrente.”

Helen annuì e si diresse verso il settore cucina dove cominciò ad armeggiare con gli strumenti, conscia della tensione perfettamente percepibile, fra John e lei, e dello sguardo dell’uomo che, per un lungo attimo, si era posato sulla sua schiena. Ne sentiva quasi il tocco e ciò la agitava parecchio. Ma finse di non accorgersene e, con movimenti precisi e fluidi, non frettolosi, preparò un bricco di caffé.

Quando ebbe terminato, la donna versò il liquido fumante e scuro in due tazze di ceramica gialla e si volse per andare verso il comandante.

L’uomo interruppe il lavoro di riordino che stava svolgendo e si alzò, con un sospiro, andando verso Helen. Prese la tazza dalle mani di lei con un vago sorriso distante e, per un attimo, il suo sguardo interrogativo, rimase sospeso in quello di lei. Sembrava che stesse cercando, dentro di Helen, qualcosa di scritto nel profondo, una verità nascosta, la risposta ai suoi sentimenti, alle sue sensazioni contrastanti. Poi John si scosse, si volse in modo da mostrarle la schiena e, sorseggiando il caffé ancora bollente, si diresse verso le finestre, muovendo alcuni passi. Avvertiva distintamente lo sguardo attento della donna alle proprie spalle. Si fermò, teso, i muscoli contratti. Bevve un lungo sorso di liquido fumante. Tirò un lungo respiro e si sforzò di comportarsi come sempre, come se dentro di lui tutto fosse calmo e tranquillo.

“Come hai trovato Alan?” le chiese, gentilmente, cercando di spezzare la tensione che si palpava fra di loro.

“Molto meglio”, rispose Helen, sollevata dalla buona disponibilità che le era parso di leggere nel tono dell’uomo. “Oramai è guarito. Ha solo bisogno ancora di riposo per riprendere le forze completamente.”

“Mi fa molto piacere per lui” disse John, quasi sottovoce. Il volto, amaro, si contorse in una smorfia. L’uomo posò la tazza sul ripiano di uno scaffale. Proprio non riusciva a mandare giù neanche un altro sorso di caffé. Contrasse le labbra, ponendosi le mani sui fianchi, e chinò il capo, amareggiato.

“E tu, John?” chiese Helen, ansiosa, avanzando di un passo verso di lui. “Tu come stai?”

“Molto meglio anch’io” mentì John.

Sentì dal passo di Helen che la donna si stava avvicinando ulteriormente a lui e, di nuovo, quella strana sensazione di sollievo e disagio lo assalirono. Istintivamente fece un passo in avanti, riguadagnando distanza da lei.

Il movimento non sfuggì a Helen, che se ne sentì ferita e addolorata. Per un attimo fu tentata di volgersi e fuggire via, ma la preoccupazione per John era troppo viva per potersi concedere quel gesto.

“John,” disse, stringendosi fortemente le mani l’una nell’altra. “Io… sono preoccupata per te…” fece un passo e accorciò di nuovo le distanze fra di loro “…credo che tu ti stia avviando verso una strada molto difficile.” Attese la reazione dell’uomo, che non arrivò, così continuò. “Ho… ho parlato con Paul e Sandra e loro mi hanno raccontato dell’incontro che avete avuto questo pomeriggio.”

“Io sto bene, Helen!” La voce di John era dura, parecchio innervosita. “Non ho bisogno che Paul, Sandra, o chiunque altro si occupi di me e del mio morale!” Strinse i pugni, ma ancora non si volse. Sperò che Helen andasse via, che corresse lontano da lui, togliendolo da quel garbuglio di emozioni contrastanti, da quella sensazione di ansia. Ma lei non andò via. Non si mosse e continuò, imperterrita, a puntare gli occhi sulla sua schiena. “Ho bisogno di restare da solo per un po’, pensare e raccogliere le idee” disse ancora John, cercando di apparire convincente. “Tutto qui.” Ma lei non appariva rassicurata. Sentì il profondo sospiro di Helen, alle sue spalle, e i passi ovattati di lei che si avvicinavano. A un tratto, non potè più trattenere la sua ira, il suo disagio, la sua ansia. Si voltò di scatto e si avvicinò di un passo alla donna. Il suo volto era contratto, la mascella serrata, gli occhi lampeggianti. Quando parlò, la sua voce era bassa, ma aspra e dura. “Insomma, Helen,” le disse a bruciapelo, “possibile che tu non riesca a capire che la tua presenza mi mette a disagio, mi crea uno stato di agitazione che non mi fa trovar pace!” Si avvicinò a lei di un altro passo. Il suo sguardo, furente, si fissò in quello della donna e, improvvisamente, lo sgomento che lesse negli occhi di lei, il suo stupore davanti alla aggressione, fecero sbollire tutta la rabbia, lasciando posto solo all’intensa sensazione del dolore di lei, che penetrava in fondo all’anima di John, mescolandosi e confondendosi col suo. Le si avvicinò, rapido, e le pose le mani sulle spalle, stringendogliele con affetto.

“Perdonami, Helen”, le disse, “non volevo essere così brusco.”

Lei chinò il capo, annuendo, sfuggendo allo sguardo di lui per raccogliersi e ritrovare il controllo di sé stessa.

“Capisco” disse dopo un attimo, tornando a sollevare gli occhi e a incontrare quelli dell’uomo. Erano addolorati, ora, ed esprimevano tutto il suo tormento.

“No,” disse John, “non puoi capire. Non completamente, almeno.” Con una lieve carezza le sue maniscivolarono via dalle spalle di Helen e l’uomo si volse per allontanarsi verso la finestra, il capo chino, le spalle lievemente incurvate. Quando giunse a un paio di metri dalla finestra, si fermò, si pose, bruscamente, le mani sui fianchi, e riprese a parlare. “Devo riuscire a incasellare e a superare tutta una serie di emozioni contrastanti che sono molto accese, dentro di me, in agguato, e che mi impediscono di avere un rapporto sereno con gli abitanti di questa base, con le persone che mi sono più vicine” disse. Sollevò il capo e puntò lo sguardo sull’esterno, pur non vedendolo realmente, seguendo delle immagini che albergavano e si inseguivano nella sua mente. “Devo farlo, se voglio trovare pace e continuare a… a vivere, non solo sopravvivere, su questa base.” Sospirò e si volse a guardare la donna che lo fissava  preoccupata. I suoi occhi, questa volta, quasi imploravano il suo aiuto. Ma Helen seppe che l’unica cosa da fare, in quel momento, era restare ad ascoltare il suo sfogo, la sua esternazione, l’esposizione liberatoria dei propri sentimenti. Così tacque e continuò ad attendere le parole che John, finalmente, lasciava libere di fluire.

“Dentro di me, quando vedo ciascuno di voi, sento l’amicizia e l’affetto, la stima che mi lega a tutti quelli che… che erano… che sono, oramai, la mia famiglia, la mia gente, ma vedo anche… il tradimento, la distanza, la mia inadeguatezza a sentirmi di nuovo, serenamente, parte di un gruppo, in grado di condurre questa gente in salvo. Sento pesare su di me la dimostrazione di totale disistima.” Fece un passo verso di lei e tornò ad arrestarsi. “Una metà di me… incolpa voi, ma l’altra metà incolpa me stesso… e tutto con eguale intensità.” La sua voce si fece più accesa, accalorata. “Pensa, Helen, non riesco più a guardare Victor in volto,” fece una smorfia amara, “il mio… il mio amico più vecchio e più caro, colui che è stato quasi un padre, un fratello maggiore, per me, senza chiedermi, quasi inconsciamente, chi egli sia veramente e, quel che è peggio, chi sono io realmente… cosa sono, per me.” Sospirò, amareggiato, distogliendo per un attimo, lo sguardo da quello attento, acceso, della donna. “E tu, Helen”, disse, “tu… tu sei la parte più difficile, più dura da affrontare.” Sollevò lo sguardo a incontrare, di nuovo, quello della donna, che ora era ferito e allarmato.

“Io?” chiese Helen, con voce appena percettibile.

“Si, tu!” L’uomo si affrettò a risponderle, a esporle il suo pensiero, per cancellare almeno in parte il dolore che le leggeva negli occhi e che lo feriva profondamente. “Tu, Helen” proseguì. “Quando sento la tua presenza accanto a me, quando ti vedo muoverti nella stanza, ti sento parlare…” si interruppe, per un attimo, per ingoiare quel groppo che gli si stava formando in gola, “quando…” fissò il suo sguardo in quello della donna, lasciando che lei leggesse, dentro il suo, anche ciò che gli era difficile esprimere a parole, “…quando avverto il forte desiderio di lasciare alle spalle tutto il resto, di esserti vicino e partecipare al tuo mondo, renderti partecipe del mio… di lasciare che… che tanti sentimenti che non ho mai trovato la forza di affrontare, di guardare in volto… vengano fuori, con naturalezza, e dare loro i nomi che non ho mai saputo dar loro, che ho sempre rimandato, dicendomi… domani… domani… rimandando… ma poi… Ma poi, con la stessa forza, guardo i tuoi occhi, chiari, aperti, sinceri e vedo gli stessi occhi, lo stesso sguardo, la stessa fiducia del momento in cui mi manifestavi la tua stima e, al contempo, meditavi di ingannarmi, di somministrarmi un sedativo, di relegarmi nel mio alloggio, piantonato da due guardie perché non potessi interferire con i tuoi piani, con quelli di Victor, con il mio staff direttivo. E allora mi assale un dolore così sordo che l’unica cosa che provo per te, per tutti voi, è un profondo rancore, e mi chiedo chi sei veramente, se veramente ho capito qualcosa di te, se so chi sono io, cosa sono, non solo per te, o per gli uomini della base, ma anche per me stesso… E so che così non posso andare avanti.” I suoi occhi, accesi, brillavano; il suo viso, contratto, esprimeva mille emozioni, tutte ugualmente intense.

Helen temette che egli stesse per cedere bruscamente, che i suoi nervi saltassero. Il respiro di John era quasi trattenuto, come se anche attraverso quello egli temesse di cedere troppo, di lasciarsi andare e perdere il dominio di sé. Improvvisamente l’uomo sollevò una mano a coprirsi gli occhi nel gesto che Helen gli aveva già visto fare quando cercava di trovare, dentro di sé, le forze per andare avanti.

Lentamente, John si calmò. Il suo respiro si fece più regolare e la sua mano scivolò giù, come trascinando una maschera di sofferenza che lo angosciava e fu come se una luce si fosse accesa dentro di lui. Helen seppe che aveva preso una decisione, o aveva trovato la forza di esprimerne una già da tempo formulata nella sua mente. In ansia, allarmata, attese che la voce del comandante esprimesse quello che il volto già manifestava.

John sospirò profondamente, quasi calmo ormai, anche se la gravità del momento era ben chiara, nei suoi occhi e nei suoi tratti.

“Quando tornerò in servizio indirò una riunione dello staff direttivo” disse.

“Per quale motivo, John?” chiese Helen, temendo quello che stava per dire.

“Perché dovrete scegliere chi deve essere al comando di Alpha. Io non posso continuare ad avere questa carica solo perché me l’aveva data Simmonds, prima che ci fosse il distacco.”

“Ma, John…” provò a protestare la donna.

“No, Helen” la interruppe l’uomo. “Ho potuto dare il meglio di me, fino a ora, perché sono stato supportato e coadiuvato, in questo incarico, dal personale della base. Un comandante è solo la punta di un iceberg, la mente coordinatrice di una squadra che è resa omogenea dalla fiducia e dalla stima reciproche. L’obbedienza non è che una manifestazione di tale fede, che è il collante di un gruppo sul quale è riposta la possibilità di salvezza di un’intera comunità. A maggior ragione in queste circostanze di assoluta incertezza.” John respirò profondamente, quindi proseguì. “Davanti a un’emergenza, Helen, lo sai benissimo, l’obbedienza immediata, senza esitazioni, può fare la differenza fra la vita e la morte, fra la salvezza e il disastro. Lo vedi ogni giorno, nel tuo lavoro. Io non posso pensare di assumere su di me una responsabilità del genere, se non posso avere la certezza dell’estrema coesione del gruppo di comando.” Bloccò, con un gesto della mano le proteste che vedeva emergere sul volto della donna. “No, Helen! Sai benissimo che quello che sto dicendo è vero e che, chiunque sia al comando di Alpha, deve poter contare su una obbedienza immediata e senza riserve. Ne va della nostra salvezza. Io non posso continuare a sentirmi il comandante di questa base se non ho, dentro di me, la certezza della pienezza di questo ruolo e, dopo quello che è accaduto, non posso averla. Per questo è mio dovere lasciare la decisione allo staff direttivo e adeguarmi alle sue decisioni.”

“Ma, John,” Helen non potè più trattenersi dall’esprimere le proprie convinzioni e il proprio disappunto, “non puoi giudicare il nostro comportamento, la nostra fiducia nei tuoi confronti, dall’ultima circostanza. Era tutto così… pazzesco! Eravamo in preda al panico e tu sai perfettamente che, a volte, la paura ha la meglio sulle convinzioni e sulle certezze delle persone, che le induce in comportamenti fobici.”

“Helen, non giocare con me!” protestò l’uomo. “Nelle nostre condizioni qualunque imprevisto potrebbe produrre la nostra distruzione. In ogni nostra emergenza c’è almeno un livello di paura abbastanza elevato. E’ solo con la cieca fiducia nelle decisioni di chi è al comando che questa paura può essere trasformata in speranza ed è solo la speranza che permette una risposta immediata agli ordini impartiti. Senza quest’ultima si rischia di perdere attimi fatali, causando la distruzione di molti, se non dell’intera popolazione di Alpha. Non posso continuare a essere il comandante di questa base se non ho la certezza di questa fiducia. Rischierei la vita di trecento persone solo per continuare a occupare la mia poltrona.”

Helen abbassò il capo, rassegnata, comprendendo che quella era una decisione di grande responsabilità da parte di John, perfettamente in linea con il suo grande senso del dovere e l’estrema serietà con la quale affrontava, giorno dopo giorno, il suo compito di comandante e di guida di quella comunità.

“Si”, disse, “capisco. Il tuo ragionamento è sensato, anche se credo che sia solo un tuo bisogno e che, in fondo a te stesso, tu sappia benissimo che su di te è riposta tutta la fiducia e tutta la speranza di cui ognuno di noi è capace.” Sollevò lo sguardo a incontrare quello dell’uomo. “Cosa farai se lo staff ti rinnoverà la fiducia?” chiese.

“Accetterò l’incarico e mi adeguerò alle sue decisioni” rispose l’uomo, molto più tranquillo ora che aveva trovato la forza di esprimere e concretizzare le sue decisioni.

 “Cosa farai se la decisione sarà diversa?” chiese ancora la donna, preoccupata per un eventuale contraccolpo sull’autostima di Koenig.

“Helen, io sono un astrofisico e un astronauta” disse John, pacato. “Troverò un ruolo, su questa base, che mi permetta di dare il mio contributo.” Le sue labbra si piegarono vagamente in quello che voleva essere un sorriso rassicurante. I suoi occhi fecero di meglio, rimandandole un brillio più caldo e più tranquillo. “Non preoccuparti per me, Helen. Quello che voglio, ora, è solo trovare il mio posto e la mia pace, per tornare alla tranquillità.”

“Capisco…” rispose lei, e sperò che, effettivamente, la riconferma di John nel ruolo di comandante o la sua ricollocazione in altro settore e ad altro compito, potessero davvero ridargli la tranquillità e la pace che egli tanto caldamente cercava. John Koenig era una persona troppo responsabile, troppo profonda, per adeguarsi a un ruolo che non  sentiva appieno. Annuì, rassegnata. Sentì il passo di John che le si avvicinava e sollevò il capo per guardarlo in volto. Questi sorrideva, ora, anche se velatamente, e con solo una traccia dell’antica tenerezza. Sì, si disse Helen, il momento liberatorio era stato davvero costruttivo, per lui.

John alzò una mano e le sfiorò un braccio, in una lieve carezza.

“Ora è meglio che riflettiamo da soli su tutto quello che ci siamo detti.” Il tono della voce dell’uomo era caldo e carezzevole. “Quando saremo più calmi e sereni potremo riparlarne, se vuoi.” E i suoi occhi, questa volta, le sorrisero davvero.

Sì, sembrava davvero più sereno.

La donna annuì, rispondendo con altrettanto calore al suo sorriso, poi gli augurò la buona notte e uscì, accompagnata dalla percezione, questa volta carezzevole, dello sguardo del comandante che la seguiva.

Helen Russell decise che era inutile cercare di riposare ancora. Dopo aver lasciato l’alloggio di John Koenig, la sera precedente, la donna era tornata, lentamente, al suo lavoro, al Centro Medico. Era scombussolata e preoccupata. Si sentiva stordita, quasi avesse ricevuto uno scossone inaspettato. Si rendeva conto che l’aver, finalmente, quasi sparato fuori, a raffica, i propri sentimenti, aveva sicuramente fatto bene a John. Ora l’uomo si sentiva più sicuro, più sereno, nonostante le incertezze che egli stesso aveva  aggiunto alla sua vita. Ora l’uomo sapeva quello che doveva fare, la strada che doveva percorrere, per porre bene i piedi per terra e andare avanti. Helen, questa volta, riceveva sensazioni opposte. Era perfettamente consapevole che questo, dal punto di vista psicologico, era molto positivo. Qualunque cosa ne sarebbe seguita, sarebbe stata, per John, una certezza, un punto fermo sul quale poter andare avanti. Ma, allo stesso tempo, la donna era molto preoccupata. Era quasi certa che nessuno avrebbe desiderato che il comandante non fosse più John Koenig. Lui era il punto fermo e il collante di tutta la base. Quindi il timore di Helen non andava nella direzione di una improbabile non rielezione. Ma, si chiedeva, come avrebbe accolto quella designazione John? Avrebbe davvero accettato la più che probabile rinomina a Comandante di Alpha? Helen era molto preoccupata.

Terminato il suo turno, intorno alle sette del mattino, aveva salutato Bob, che veniva a darle il cambio, ed era andata nel suo alloggio per cercare di dormire e trovare un po’ di pace. Ora, dopo tre ore di agitato dormiveglia, aveva deciso di alzarsi e di smettere di provarci. Vide l’orario sul commlock poggiato sul comodino. Erano le 10,55. Tirò le gambe fuori dal letto e rimase, per qualche attimo, seduta a pensare sul da farsi. Poi si alzò, decisa. Prese la biancheria e una divisa pulita dall’armadio, l’accappatoio e un telo di spugna e, dopo aver sistemato l’occorrente sul letto, andò in bagno e fece scorrere le ante della cabina doccia. Aprì il getto d’acqua regolando la temperatura, quindi si spogliò e si immerse sotto lo scroscio tiepido. Si concesse una lunga doccia rilassante, mentre lasciava la mente vagare. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, di confrontasi con chi, come lei, aveva a cuore l’interesse di John Koenig e della base. L’unico a cui riusciva a pensare era Victor. Così decise di andare a parlare con lui, raggiungendolo nel suo laboratorio. Presa questa decisione, Helen si sentì più tranquilla. Improvvisamente ebbe fretta di terminare la doccia e di raggiungere l’alloggio dell’amico. Così si affrettò e, mezz’ora dopo, era già vestita e chiudeva la porta del suo alloggio dietro di sé, pronta a raggiungere il professore.

Helen avanzò nell’attrezzatissimo laboratorio privato di Victor Bergman. L’uomo, un sorriso cordiale dipinto sul volto, le andò incontro tendendole le mani.

“Helen!” esclamò il professore. “Vieni avanti. E’ un piacere vederti!”

“Ciao, Victor” disse lei, altrettanto cordiale, ma con un’ombra mesta e ansiosa dipinta sul viso. “E’ qualche giorno che non ci vediamo. Io…”

Victor le prese le mani e gliele strinse brevemente. Poi la condusse verso un gruppo di poltrone poste in un angolo vicino alle finestre. “Credo di conoscere i motivi che ti hanno indotta a chiuderti in te stessa”, le sorrise, paterno. “E credo anche di intuire cosa ti porta qui, ora.”

Helen annuì, sollevando lo sguardo preoccupato a incontrare quello dell’uomo.

“John…” disse.

“Già, John…” concordò il professore, incurvando l’angolo delle labbra in una smorfia di disappunto. Anche lui era in ansia per l’amico ma conosceva John Koenig molto bene e sapeva che l’unica cosa che poteva fare per lui, in quelle circostanze, era rimanere in attesa. Il comandante sarebbe arrivato, dopo laboriosa e dolorosa riflessione, al punto fermo, alle conclusioni che necessitava raggiungere. Anche da lui non avrebbe accettato aiuto. In quel frangente, più lontano stava da John, più rapidamente questi avrebbe ritrovato sé stesso. Ma questo, ovviamente, non valeva per i rapporti che intercorrevano fra il comandante ed Helen. Essi, nonostante la facciata esterna, erano apparsi subito di natura del tutto diversa. Victor comprendeva perfettamente quanto Helen potesse essere angosciata dalla crisi di John e dalla sua chiusura a tutto e a tutti di quei giorni. Ora era Helen ad avere bisogno di supporto e di aiuto e lui sperava tanto di essere in grado di offrirglielo.

“Siediti, Helen,” disse alla donna, indicandole una delle poltrone e cercando di mettere nella propria voce quanta più rassicurazione e calore poteva, “e raccontami tutto.”

Helen annuì, nervosa, e sedette in posizione quasi raccolta su sé stessa. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e intrecciò le mani stringendo fortemente le dita.

Victor le si sedette accanto, silenzioso, e rimase in paziente attesa, scrutandole attentamente il profilo.

Dopo qualche attimo, Helen si decise a parlare. Senza sollevare lo sguardo, lentamente, raccontò all’amico quello che era accaduto nei suoi incontri con John dei giorni precedenti, delle cose che le avevano rivelato Paul, Sandra e Bob, fino a giungere alle rivelazioni fattele dal comandante in quell’esposizione liberatoria della sera precedente.

Victor seguì in silenzio, attentamente, il lungo racconto, passando attraverso una serie si sensazioni e stati d’animo che lo colpivano ma che avvaloravano la sua tesi al riguardo. Quando Helen terminò e sollevò lo sguardo ansioso a cercare quello del professore, l’uomo le prese una mano e le sorrise con affetto, rassicurante.

“Vedi, Helen, in qualche modo, questa decisione di John non mi sorprende. Non puoi negare che è tipica della profonda onestà e responsabilità con la quale John affronta il compito che gli è stato affidato.” Inarcò un sopraciglio per accompagnare le parole. “Riesci a immaginare John Koenig che rimane fermamente ancorato alla poltrona di comando se non è perfettamente certo che è quello il meglio per la sua gente?”

Helen scosse il capo, negando, concordando con quanto Victor stava dicendo.

“Neanche io” continuò il professore. Questa decisione di John è, a mio avviso, molto positiva.” Annuì al viso dubbioso della donna. “Primo perché un sereno e consapevole John Koenig farebbe così, secondo perché quando lo staff direttivo gli riconfermerà la sua fiducia, lui riuscirà ad accettare quello che è accaduto durante il nostro incontro con Aetheria per quello che effettivamente è stato: una manifestazione della nostra paura umana e della cieca spinta alla sopravvivenza che è dentro ciascuno di noi.”

“E se lo staff dovesse scegliere qualcun altro?” chiese Helen. “Te, a esempio.”

“Oh, tutti sanno che io sono uno scienziato, un personaggio distratto che ama stare in disparte. Nessuno potrebbe pensare a me. Inoltre nessun altro ha il carisma di John”, rispose Victor con un sorriso rassicurante. “E, in ogni caso, sono convinto che qualunque sia il ruolo che la comunità vorrà affidargli, questo sarà accettato da John di buon grado. Ha bisogno di essere convinto a occupare il posto che gli compete senza imporsi a nessuno. Vedrai, gli ci vorrà ancora qualche giorno, ma John riuscirà a ritrovare le sue certezze e anche i suoi dubbi, che ne sono solo il contorno.”

“Come credi che gli altri accoglieranno questa decisione?” Chiese ancora Helen.

“Sono convinto che ne saranno stupiti ma farà più che bene anche a loro poter parlare approfonditamente di ciò che è accaduto e delle proprie impressioni senza avere la spiacevole sensazione di star tradendo il comandante. Servirà anche a loro a ritrovare il contatto con la realtà e con le proprie insicurezze, oltre che con le proprie certezze.” Victor sorrise, incoraggiante. “Vedrai,” disse, “tutto si risolverà per il meglio. Siamo tutti già a buon punto.” Si alzò e le tese la mano. “E ora andiamo a pranzo” le disse, aiutandola a sollevarsi e sospingendola gentilmente verso l’uscita. “Io ho un certo appetito. Tu?”

Helen sorrise, sollevata.

“Anch’io” disse. “Mi sono appena ricordata che stamane non ho fatto colazione.”

 

Capitolo Sesto

John Koenig entrò nella Sala Comandi avanzando con passo lento ma deciso. Le due settimane di convalescenza erano terminate e lui riprendeva, quella mattina, il suo lavoro. La sera precedente, come richiesto dal regolamento, era andato al centro medico per l’ultimo controllo, prima di essere dichiarato abile al servizio ufficialmente. Aveva sperato, mentre vi si recava, di trovare solo Bob Mathias, non Helen. Erano sei giorni che non la vedeva e non le parlava, dalla sera della loro lunga e liberatoria conversazione. Non sapeva cosa lei avrebbe provato nel rivederlo, ora che sapeva, ora che le aveva detto molto di più di quanto aveva raccontato a sé stesso. Ma, soprattutto, non sapeva quello che avrebbe provato lui nel rivedere lei, dopo che aveva messo a nudo la sua anima in quel modo così franco, con lei. Ma sì! Si era detto. In fondo gli andava bene anche che fosse Helen a visitarlo. Dovevano pur affrontare entrambi il ritorno a una vita quotidiana, anche se ancora non sapeva quale sarebbe stata.

Entrato nel Centro Medico aveva trovato non solo entrambi i medici in servizio, ma anche Victor. Questa situazione non l’aveva prevista, ma aveva sospirato, rassegnato. Anche questo, prima o poi, avrebbe dovuto affrontare. Istintivamente, i suoi occhi avevano cercato quelli della donna, mentre avanzava lentamente nella sala, e li avevano trovati, per un lungo istante teso ma privo di imbarazzo, stranamente così simile a quello che si erano scambiati nel loro primo incontro, quando era entrato in quella stessa sala e aveva trovato Helen Russell, seduta alla sua scrivania. In quel preciso istante, come in questo, John aveva avuto la precisa sensazione che qualcosa di importante e decisivo era accaduto, anche se non sapeva cosa. In questo, come in quell’incontro, aveva anche intuito che la dottoressa aveva avuto la sua stessa percezione.

“John!” aveva esclamato il professore, per nulla raffreddato dall’atteggiamento distante del comandante. “Come stai? Sono contento di vederti!”

“Sto bene, grazie”, aveva risposto John, tenendosi alquanto sulle sue, riguardo al professore, rivolgendogli un breve e fugace sguardo. Poi era tornato a rivolgere la sua attenzione verso la dottoressa. “Sono venuto per la visita di controllo. Domani mattina devo rientrare in servizio.”

Helen aveva annuito, rivolgendogli un sorriso che manifestava una certa ansia, ma anche una velata dolcezza.

“Preferisci che sia il dottor Mathias a visitarti?” gli aveva chiesto.

“Scegli tu”, le aveva risposto John. “Ho piena fiducia in entrambi voi.” E un vago sorriso gli aveva sfiorato le labbra.

Helen, allora, gli aveva dato un pigiama da indossare, poi lo aveva sottoposto ad accurati, anche se rituali, esami medici. Aveva sostituito l’imbracatura al polso sinistro con una leggera doccetta da tenere solo per quella notte. Aveva lo scopo solo di coordinare la riabilitazione del movimento del polso. Poi, dopo un sorriso incoraggiante, l’aveva aiutato a sollevarsi dal lettino, sfiorandogli le spalle con dita leggere e morbide il cui tocco non aveva lasciato indifferente nessuno dei due, lasciando una sorta di caldo conforto in entrambi.

Qualche minuto più tardi, dopo aver reindossato la sua uniforme e aver scambiato alcune parole di circostanza con i presenti, John, stanco, svuotato come se avesse combattuto una battaglia, si era ritirato nel suo alloggio dal quale non era più uscito nemmeno per consumare la cena. Si era fatto portare un panino e un succo d’arancia dal personale dei servizi ed era rimasto in silenzio, ascoltando brani jazz, fino a quando aveva deciso di mettersi a letto e dormire.

Ora John Koenig si inoltrava tacitamente nella Sala Comandi, diretto al suo ufficio, profondamente desideroso di passare inosservato in mezzo a quella gente indaffarata che avvertiva quasi estranea. Ma non riuscì nel suo proposito. Una serie di voci cordiali e accese salutarono con affetto il suo passaggio.

John salutò tutti con atteggiamento distaccato e formale e raggiunse, in pochi passi, i gradini che conducevano all’ufficio del comandante. Quando fu in cima prese dalla cintura il commlock e lo puntò verso il pannello accanto alla porta, dando il comando per l’apertura di quest’ultima. Poi si volse a cercare con lo sguardo Paul, percependo, con la coda dell’occhio, la platea, stupita, disorientata, sotto di lui.

“Paul”, disse, “mi faccia avere entro breve i rapporti sulla situazione relativa agli ultimi giorni, da tutti i reparti.”

“Bene, Comandante.” Paul rispose con altrettanta freddezza e professionalità a quella manifestata da Koenig.

Senza attendere altro, i due uomini si volsero, Paul per tornare alla sua consolle e obbedire agli ordini ricevuti e John per varcare la soglia del proprio ufficio e chiudersi la porta alle spalle.

Quando la porta si fu chiusa, John non potè trattenersi dall’abbracciare con lo sguardo tutta la sala, lentamente, angolo per angolo, dettaglio per dettaglio, apprezzando la semioscurità che l’avvolgeva, riguadagnando la familiarità con quel luogo che, in molte occasioni, era stato per lui una sorta di rifugio, una calda e accogliente fonte di conforto.

Sospirò, cercando di vincere il contrasto fra l’abituale sensazione di conforto e quella di disagio in agguato nella sua mente e andò a sedersi alla sua scrivania, dove accese il monitor eil suo computer personale.

Si immerse, lentamente, nel suo lavoro, rasserenandosi. Fu interrotto solo dall’arrivo di Tanya che, riservata e gentile come sempre, gli portava un vassoio con una tazza e un bricco colmo di caffé fumante. L’uomo la ringraziò distrattamente ma non senza un sorriso, dimostrandole la propria gratitudine sincera per la silenziosa e gentile attenzione. Poi riprese a digitare sulla tastiera e a immergersi nel proprio lavoro, quasi dimentico dei suoi gravi propositi. Mezz’ora dopo il segnale di richiesta della porta suonò ancora. Era Paul che gli portava le stampe dei rapporti da lui richiesti. John sollevò lo sguardo per vedere il suo giovane vice che gli si avvicinava con fra le braccia una pila di fascicoli protetti da plastiche di vari colori. Alle spalle di Morrow, sull’uscio, comparve improvvisamente anche la magra figura di Victor Bergman.

“Posso, John?” chiese il professore, fermo sulla soglia.

“Vieni avanti, Victor” rispose John, freddamente. Poi, mentre il professore avanzava, tornò a rivolgere la sua attenzione a Morrow. “Grazie, Paul” disse alzandosi leggermente, quel tanto che bastava per raccogliere fra le proprie braccia la documentazione che il giovane gli porgeva. Quindi, tornato a sedersi, cominciò a sistemare davanti a sé i fascicoli, dividendoli per settore. Attese di udire il suono ovattato della porta che si chiudeva alle spalle di Morrow, poi tornò a rivolgersi a Bergman, pur senza alzare lo sguardo su di lui.

“Dimmi pure, Victor” disse distaccato.

“Nulla di nuovo, John” rispose il professore, con un sorriso un po’ imbarazzato disegnato sul volto, ma imperterrito nel suo intento di avvicinamento. “Volevo solo chiederti come ti senti, come ti è sembrato il ritorno al lavoro, dopo un allontanamento così lungo e così inusitato, in te.”

“Tutto come sempre, Victor” rispose John, questa volta drizzandosi e voltandosi a guardare Bergman come se stesse cercando in lui qualcos’altro. “Ho solo bisogno di qualche momento per riprendere in mano la situazione e potermi rendere utile.” Fece un attimo di pausa, corrugando la fronte, immerso in un pensiero. Poi si chinò in avanti e schiacciò un tasto posto sotto al suo monitor. “Paul” disse al volto del suo giovane vicecomandante apparso sullo schermo, “convochi una riunione dello staff di comando per questa sera alle 18,00. Non accetti defezioni.”

Il giovane apparve visibilmente meravigliato, ma si astenne dal fare commenti e rispose con un breve e laconico: “Si, Signore.”

John spense la comunicazione e si volse per cercare il contatto con Victor che, nel frattempo, si era andato ad appoggiare all’angolo che chiudeva la scrivania del comandante.

“Sai già di cosa si tratta, vero?” gli disse, lasciandosi andare contro lo schienale della poltrona girevole.

Victor annuì, fissando il volto del comandante, senza distogliere lo sguardo dal suo.

“Te ne ha parlato Helen, ovviamente!” Quella di John era una constatazione amara, anche se non era meravigliato della cosa. Era chiaro che Helen, in un modo o nell’altro, ne avrebbe parlato con Victor. Del resto, anche lui avrebbe fatto la stessa cosa se si fosse trovato al suo posto.

“Non devi adirarti con lei, John” azzardò il professore. “E’ molto preoccupata per te.”

“Non c’è nulla di cui preoccuparsi, Victor”, ribatté, brusco, il comandante. “Decido io della mia vita. Non sono né un ragazzino né un folle. Sono solo un uomo che vuole essere sicuro di occupare il posto che realmente gli compete!” Serrò le labbra, adirato verso Helen, verso Victor e verso sé stesso. “Ringrazio sia te che Helen per l’interessamento ma so quello che faccio e vado diritto per la mia strada” disse dopo un attimo di pausa.

“Di questo sia Helen che io siamo certi. Ma è chiaro che l’affetto che nutriamo per te ci rende… ci fa essere in ansia per te.”

“Davvero?” chiese John, sarcastico più di quanto avrebbe voluto. Respirò profondamente riprendendo il controllo dei suoi nervi e delle sue emozioni. Tornò a volgersi verso il ripiano dove erano i fascicoli, vi si riavvicinò, tirando avanti la sedia che scorse sulle rotelle.

“Va bene”, disse Victor, con un sospiro comprensivo. “Ne riparleremo quando sarai pronto a farlo, quando avrai accettato l’idea che anch’io sono fallibile, come tutti. Allora potrai perdonare le mie debolezze… e anche le tue.”

“Ora ho da fare, Victor” disse John, colpito da quelle parole, le stesse che aveva detto Mathias, tempo prima, le stesse che gli si aggiravano dentro… perdonare sé stesso… perdonare sé stesso… perdonare sé stesso. Si riprese e tornò a rivolgersi al professore: “Perdonami, ma ho del lavoro arretrato da recuperare” continuò, facendo forza su sé stesso senza volgersi a guardare l’altro uomo. Prese una penna dal vasetto davanti a sé, imponendosi una calma apparente. Non rialzò il capo se non dopo aver sentito il rumore della porta che si richiudeva alle spalle di Victor. Solo allora si concesse di chinarsi e raccogliere il capo fra le mani, i gomiti poggiati sul ripiano, gli occhi chiusi nel tentativo di riprendere il controllo di sé stesso.

Helen Russell fu l’ultima a giungere nell’ufficio del comandante per la riunione dello staff direttivo. Era stata profondamente scossa dall’annuncio fattole da Paul, quella mattina. Sapeva che sarebbe successo ed era tesa coma una corda di violino. Ma la voce di Morrow aveva reso ufficiale qualcosa che, fino a qualche attimo prima, era solo latente. Era stata nervosa e agitata fino a qualche attimo prima di lasciare il Centro Medico per recarsi nell’ufficio del comandante. Bob Mathias aveva notato il suo stato di agitazione e, preoccupato, le aveva chiesto se poteva esserle di aiuto. Ma lei, gentilmente, aveva declinato l’offerta ritirandosi nel suo ufficio. Ora, varcando la soglia dell’ufficio di John, notò tutti già seduti intorno al grande tavolo, al centro della sala, in piena luce. John era seduto al centro, di fronte a lei. Sentì il richiamo dello sguardo dell’uomo che la seguiva mentre avanzava, più forte e penetrante dell’intenso chiacchiericcio degli altri. Sollevò il capo e il suo sguardo incontrò quello del comandante, grave, intenso, fermo, eppure non chiuso al suo. Per un lungo momento lasciò che gli occhi dell’uomo le scavassero dentro e, contemporaneamente, le lasciassero leggere quello che si agitava nella mente di lui. Poi chinò il capo e sedette al suo posto, fingendo di ignorare gli occhi di John che ancora la fissavano intensamente. Qualche attimo e poi anche lo sguardo del comandante si spostò da Helen per fissarsi, a uno a uno, in una lenta carrellata, su ciascuno dei presenti. Quasi richiamati all’ordine da quello sguardo, gli altri tacquero e sedettero composti, in attesa che Koenig dicesse loro quale era l’ordine del giorno.

“Bene…” disse John, cominciando il suo discorso. “Ho voluto chiamarvi qui, in questa riunione straordinaria, perché sento il bisogno di farvi partecipi di quello che, per me, è un problema di grande importanza.” Gli occhi di tutti erano fissati su di lui, attenti e in attesa. John sollevò i suoi a incontrare quelli di Alan, fiduciosi e allarmati al tempo stesso. Anche lui aveva ripreso servizio quella mattina e non era certo una gradevole accoglienza quella che gli stava riservando, pensò John. Ma non poteva farne a meno e non riusciva a rimandare quella questione che gli stava così intensamente a cuore. Distolse lo sguardo da Alan e ripercorse quelli di tutti gli altri interlocutori. Quindi si decise a parlare e chiarire quelli che erano i motivi della convocazione di quell’assemblea.

“Prima di ogni cosa voglio ringraziare tutti per essere presenti a questa riunione del personale direttivo senza che vi sia stato notificato neanche l’ordine del giorno.” Chinò, per un attimo, lo sguardo, a fissare le proprie mani che giocherellavano, nervose, con una penna. Poi tornò a guardare, di volta in volta, tutti i presenti. “Il motivo di questa mia scelta, cioè di non chiarirvi l’obbiettivo di questa convocazione, è il desiderio di non influenzare la vostra opinione e la vostra obbiettività.”

Gli sguardi di tutti erano fissi su di lui, incuriositi e allarmati. Ma nessuno osò interrompere le sue parole. Solo Helen, fra tutti i presenti, teneva il capo chino sul fascicolo che aveva davanti, sulle proprie mani che si sfioravano, apparentemente abbandonate sui fogli protetti da plastica bianca. Attendeva la continuazione del discorso del comandante come si fa con un forte colpo che si ha la consapevolezza di star per ricevere.

John fissò per un attimo lo sguardo su di lei, non riuscendo a impedirsi di essere preoccupato per lo strano miscuglio di tensione e rassegnazione che lui leggeva chiaramente in quell’atteggiamento apatico e distante. Con un gesto che gli costò un grosso sforzo, Koenig distolse la propria attenzione dalla donna e fissò tutti gli altri. Doveva andare a fondo del suo discorso e liberarsi da quel grande peso che l’opprimeva.

“Gli ultimi avvenimenti che ci hanno visti protagonisti dello storico… incontro con il pianeta Aetheria, che ha posto… diciamo… in stretto contatto il nostro destino con quello dei suoi abitanti”, continuò, “mi hanno messo dinanzi a una realtà che non posso superare senza il vostro aiuto.”

“Di cosa si tratta, Comandante?” chiese Alan, sempre generoso e disponibile, fedele all’uomo che stimava e apprezzava più di chiunque altro.

John gli rivolse un sorriso grato, poi continuò tornando a guardare gli altri.

“Mi sono trovato, in quell’occasione, a fronteggiare una realtà sulla quale ho avuto modo di meditare approfonditamente, durante i giorni della mia convalescenza, nei quali sono stato lontano da quest’ufficio.” Respirò profondamente, mentre la sua bocca si inclinava in un lieve sorriso che appariva chiaramente come una smorfia amara. Poi riprese a parlare. “Al principio ero molto adirato e disorientato. Mi sentivo soprattutto tradito da tutti voi… eccezion fatta per Alan, ovviamente… Poi, pian piano, con la meditazione e col tempo, ho capito che non avevo il diritto di essere adirato, che l’unica cosa che avevo da fare era di capire che non posso continuare a occupare un posto, su questa base, solo perché qualcuno me lo ha dato in circostanze del tutto diverse da quelle che poi ci siamo trovati ad affrontare. Ho capito che, fino a ora, ho continuato a sentirmi perfettamente investito di questo ruolo poiché, giorno per giorno, in ogni circostanza, interfacciandomi con voi e col resto del personale, ho riscontrato la fiducia e la stima che mi portavate. Per questo motivo ho assunto su di me il peso della responsabilità di decisioni difficili, sofferte, a volte impopolari, eppure necessarie, a cominciare da quella di non tentare di ritornare sulla Terra, immediatamente dopo il distacco e solo Dio sa quanto, ogni giorno, ci abbia pensato e ripensato, quante volte mi sia chiesto se è stata la decisione giusta… Solo l’incontro con Arra… sì, con la regina Arra”, calcò le parole ribadite con un tono quasi di sfida, ma subito dopo la sua voce tornò a essere pacata, le sue parole lente e pesate, “solo allora ho capito che tutti noi avevamo un compito ben preciso e stabilito nell’universo e che l’esplosione che ha causato il distacco della Luna dalla sua orbita, per quanto apparentemente fortuito, era anch’essa parte di un destino, di un disegno, di una… una evoluzione preordinata, inevitabile, calcolata, di tutto questo universo o, almeno, di gran parte di esso. Ma torniamo a quanto stavo dicendo. In questi giorni mi sono reso conto che il continuare a rivestire il ruolo di comandante di Alpha senza avere la vostra investitura, intesa come fiducia e stima, rappresenta, oltre che un peso per me, anche un grande pericolo per tutti.”

“Ma, Comandante…”

John bloccò, con un gesto della mano, la protesta iniziale di Sandra.

“No, lasci che finisca, Sandra”, disse. “Quello che intendo è che, nella nostra situazione di naufraghi dello spazio, abbandonati a tutti gli eventi strani e non, molto spesso inevitabili, che potrebbero risultare fatali per tutta la base, la nostra salvezza sta nella rapidità di risposta, nella compattezza di tutti noi e, quindi, nell’obbedienza immediata agli ordini. La contestazione, in momenti normali, è comprensibile e anche costruttiva, ma nei momenti di emergenza, come quelli che abbiamo spesso vissuto, è dannosa. Per cui, visti gli ultimi eventi e la compatta opposizione ai miei ordini durante l’ultima crisi, ritengo che il mio rimanere legato al ruolo di comandante sia dannoso per tutti noi…” Si alzò dal suo posto, posando la penna che, fino a un attimo prima, era stata stretta nella sua mano. “Vi chiedo, quindi”, proseguì allontanandosi leggermente dal tavolo, “di decidere chi, a vostro avviso, sia la persona più adatta ad essere al comando di Alpha. Decidete discutendo in tutta tranquillità e serenità, fra voi. Ne va della vita di tutti noi. Io non chiedo che di trovare un posto che sia mio, su questa base. Accetterò molto serenamente qualunque cosa voi decidiate.”

Un coro di proteste e di voci che si accavallavano, le une sulle altre, invasero la sala. John non prestò più attenzione a nessuna di loro. Incrociò, frettolosamente, lo sguardo di Victor, poi i suoi occhi si fermarono, per un lungo momento, in quelli di Helen, quindi battè una mano sulla spalla di Alan, cercando di essere rassicurante abbastanza da calmarne le proteste e salì i gradini che lo conducevano verso la porta che dava sul corridoio.

“Io sarò nel mio alloggio. Pronto ad accettare le vostre decisioni” concluse.

Il coro di proteste lo accompagnò fino a quando non fu uscito dall’ufficio e non si fu richiusa la porta alle sue spalle. La decisione era presa e John Koenig si sentiva più leggero, sollevato dall’enorme peso dei suoi scrupoli, mentre si avviava lentamente, ma con passo leggero, verso il suo alloggio. Qualunque sarebbe stato l’esito di quella riunione, egli avrebbe saputo, al termine, di occupare un posto che era suo, di rivestire un ruolo che gli apparteneva.

 

Capitolo Settimo

Victor Bergman, dopo un’ultima breve occhiata al volto contrariato dell’amico, aveva distolto lo sguardo da quegli occhi azzurri, intensi, tormentati ma decisi, e aveva preso a fissare una cartelletta rivestita di plastica rossa che aveva davanti a sé. Aveva compreso che John era uscito dalla sala in quanto, dopo questo atto, così definitivo e deciso, il silenzio sconcertato era sceso fra i convenuti. Per un certo tempo tutti rimasero silenziosi, increduli e interdetti. Poi la voce di Morrow si levò, titubante, sul silenzio assordante, così pesante e insopportabile.

“Ma, professore…” accennò il giovane, protendendosi leggermente verso l’interpellato. “Fa sul serio, secondo lei?”

“Maledettamente…” la bocca di Victor si contrasse in una smorfia grave. “Maledettamente sul serio.”

“Ma… è assurdo!” esclamò, d’istinto, Paul, cominciando a reagire allo sconcerto iniziale. “Come può pensare…” volse il capo a scrutare i volti dei suoi amici, cercando conferme, appigli ai quali aggrapparsi. “Insomma…” continuò “possiamo essere stati non in accordo con le sue direttive, con le sue idee, ma lui è il nostro punto fermo, la nostra guida…”

“Ah si?” Alan scattò, furente. Si alzò, facendo rovesciare la sedia dietro di se, nella foga, e si avvicinò all’altro puntandogli contro un dito accusatore. “Parli proprio tu che hai contestato i suoi ordini fino a dargli praticamente del pazzo? Proprio tu parli di punti fermi?” Respirò, ansante, tentando di contenere la propria ira. “Ma che belle parole!” esclamò, il tono di voce molto alto. “Ma come credi che si sia sentito mentre tutti gli dicevate che era un visionario… mentre stavate lì a…” fece un gesto esasperato con la mano “…a ingannarlo, mentre lui aveva un solo scopo: salvare tutte le nostre vite?” Agitò di nuovo il dito sotto il naso di Paul poi, nervoso e rattristato, si allontanò dal gruppo, dirigendosi verso le finestre che davano all’esterno. Qui rimase, taciturno, i gomiti poggiati sul davanzale, il mento sui pugni chiusi, immerso nei propri pensieri, conscio degli sguardi degli altri che lo avevano seguito, ma incurante di essi.

“Calmiamoci tutti, per favore” intervenne Bergman. “Siamo tutti colpevoli di quello che accade, a eccezione di Alan e tutti innocenti al tempo stesso.” Victor si alzò, compostamente, prendendo tempo per riflettere e riaccostò la sedia al tavolo con movimenti lenti e distaccati. Poi lanciò una breve occhiata a Helen Russell che, immobile, apparentemente passiva, ascoltava tutto senza uscire dai propri pensieri dolorosi. Victor comprendeva perfettamente tutto il tormento che si agitava dentro di lei. Sapeva che lei era convinta di essere la principale artefice di tutto ciò che stava accadendo, l’unica colpevole. Victor condivideva i suoi sensi di colpa, ma aveva l’esperienza smaliziata dell’età, quella che lo metteva in condizione di comprendere più a fondo, di andare oltre. Si avvicinò alla donna e le pose, con affetto, una mano sulla spalla, tentando di comunicarle la propria fiducia e il proprio intuito. Poi tornò a parlare agli altri, prendendo a percorrere, lentamente, la linea che seguiva la circonferenza del grande tavolo per le riunioni. “Lo scopo di questa assemblea non è quello di recriminare vicendevolmente, né di litigare, urlare o scambiarci reciproche accuse” disse, le mani incrociate fra loro, dietro la schiena. “Quello che dobbiamo fare, ora, è cercare di comprendere non solo quello che è accaduto e perché è accaduto, ma anche quelli che sono i nostri convincimenti riguardo alla figura istituzionale di Comandante, alla figura di John Koenig e al compito che egli o chiunque altro sia chiamato alla nostra guida deve avere.” Si fermò e guardò, uno a uno, tutti i suoi interlocutori che lo fissavano, seduti ai propri posti. Poi il suo sguardo andò a incontrare quello di Alan, fermo, appoggiato con una spalla alla parete accanto alla finestre, le braccia incrociate sul petto. Quindi Victor riprese a parlare.

“Quello che ha compiuto John Koenig, in questa circostanza, non è un capriccio o una ripicca, ma un gesto di grande responsabilità e di profondo rispetto, per noi tutti e per il ruolo che ricopre. è con altrettanta responsabilità, serietà e rispetto che dobbiamo rispondere alla sua richiesta di riflettere a fondo.” Respirò profondamente, poi riprese a parlare. “Ora cerchiamo di chiarire a noi stessi e agli altri quello che pensiamo e quello che è necessario per Alpha e per la nostra sopravvivenza” concluse, tornando verso il proprio posto. Lungo il tragitto raccolse da terra la sedia capovolta da Alan, la drizzò e la accostò al tavolo. Fu quasi un simbolo che andava a rafforzare ciò che aveva detto. Quando andò a sedersi si scoprì più tranquillo e positivo.

Il silenzio assoluto scese sull’assemblea, rotto solo dall’eterno rumore degli strumenti di sostentamento vitale costantemente in funzione, dal loro oramai familiare ronzio di sottofondo. Per lunghi momenti nessuno parlò poi, finalmente, Helen ritrovò la sua grinta e la sua fermezza.

“Mi rendo conto che, forse, per i motivi che tutti noi conosciamo, io sono proprio l’ultima persona che dovrebbe parlare” disse la donna, cercando istintivamente, con lo sguardo, la figura di Alan, quasi a voler in qualche modo pacificare definitivamente lo scambio piuttosto acceso che avevano avuto qualche giorno prima. Gli occhi del giovane sostennero i suoi, ma senza ira questa volta, quasi con comprensione e affetto. Questo le servì da incoraggiamento. La donna, dopo una breve pausa, si alzò dalla sedia e riprese a parlare. “Ma, in qualche modo, sento di dover esprimere con chiarezza quello che penso, così da togliere molti dubbi e molte recriminazioni, sia in me che in voi” riprese. “Ammetto che, durante la nostra ultima emergenza, la parte di me che aveva paura di morire… ha avuto la meglio, reprimendo quella che nutre cieca fiducia nella capacità di giudizio e nel grande acume di John Koenig. Mi rendo conto che questa paura ha fatto sì che la mia ragione desse troppo peso a quello che appariva essere la giustificazione ad hoc alle mie prese di posizione e ai miei timori: le radiazioni cui sia il comandante che Alan Carter sono stati sottoposti, nello spazio, quando la nostra squadra ha fatto esplodere il grosso asteroide in rotta di collisione con noi e Alan è stato soccorso da John.” Il suo sguardo tornò a cercare istintivamente quello di Carter mentre si avvicinava lentamente alla postazione di quest’ultimo. “E’ mio dovere supervisionare anche sullo stato psicologico del personale, compreso il comandante, ma prima di trarre le mie conclusioni avrei dovuto approfondire e convalidare più scientificamente le mie convinzioni.” Tacque, cercando di compiere uno sforzo su sé stessa e vincere i propri sensi di colpa e il disagio che provava nel parlare così apertamente a una platea. “Quello che tenevo a dire è che sono completamente d’accordo con i motivi che hanno spinto il Comandante alla convocazione di quest’assemblea… Comprendo e approvo. Una persona di grande responsabilità, quale John Koenig è, che ha sempre assunto sulla sua persona tutto il peso del compito che ricopre, dal primo istante in cui gli è stato assegnato, non poteva non chiedere a noi tutti una altrettanto seria, grave e decisa presa di responsabilità, chiarendo a noi stessi cosa ci aspettiamo da un comandante e decidendo se continuare a volere che sia lui a ricoprire questo ruolo, oppure se dare a qualcun alto la nostra fiducia, poiché è su questa totale e istantanea, immediata fiducia che deve basarsi la scelta del comandante, di colui che deve prendere decisioni altrettanto immediate e istantanee nelle quali, a volte, è posta la differenza fra la vita e la morte, fra la sopravvivenza e la distruzione. Discutere l’opinione del comandante può risultare costruttivo, ma la decisone finale deve essere appannaggio di chi ha la responsabilità di questo compito nelle proprie mani, chiunque egli sia. Per questo motivo la fiducia e l’obbedienza che ne è conseguenza è il requisito fondamentale, la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per rivestire quel ruolo.” Helen tornò a guardare con intenzione e fermezza ciascuno dei suoi interlocutori. “Per quel che mi riguarda”, disse ancora, “non riesco a immaginare di poter riporre la mia totale fiducia che in una sola persona: John Koenig. Per questo, per quel che conta il mio voto e per il ruolo che rivesto, la mia opinione è che lui sia l’unica persona in grado di guidare questa base.” E, concluso il suo discorso, tornò a sedere, la schiena appoggiata allo schienale, lievemente abbandonata all’indietro, le braccia incrociate sul petto, il capo lievemente sollevato a seguire i movimenti e le espressioni degli altri.

Era quasi mezzanotte, oramai. John Koenig era nel suo alloggio, sprofondato su un divano della zona living. In mano aveva una tazza colma di caffé, oramai appena tiepido. Era da parecchio tempo che stava seduto lì, immerso nei propri pensieri, che lasciava liberi di scorrere, seguendo ognuno i propri sentieri. Si alzava, di tanto in tanto, lentamente, quasi meccanicamente, per tornare a riempire la tazza col caffé quando si accorgeva che era vuota, poi tornava a sedersi, le lunghe gambe accavallate, il corpo abbandonato contro lo schienale, gli occhi fissi nel vuoto. Aveva provato a mangiare qualcosa, qualche ora prima, ma aveva desistito. Non riusciva a mandar giù nulla neanche sforzandosi. Allora aveva acceso il computer e, cercando nei suoi file personali, aveva trovato una compilation di cool jazz che gli era sembrata adatta al suo stato d’animo. L’aveva quindi fatta partire, a volume appena percettibile, ed era andato a prepararsi un grosso bricco di caffé forte e bollente. Poi aveva guadagnato la postazione nella quale ancora ora rimaneva, pensieroso, stanco, sorbendo, di tanto in tanto, un sorso di liquido scuro e lasciando che la musica si mescolasse ai suoi pensieri e alle sue sensazioni, recandogli il sollievo che, ora, desiderava fortemente. Con la mente aveva percorso e ripercorso, in quelle ore, tutte le parole che aveva pronunciato, nel suo ufficio, quella sera, durante l’assemblea straordinaria, quelle che aveva detto a Helen, quando finalmente, giorni prima, aveva trovato la forza di confidarsi con lei, di esternare quello che aveva dentro e che non aveva ancora puntualizzato con chiarezza. Ora si sentiva spossato, sfinito, ma stranamente sollevato. Finalmente avrebbe riguadagnato un punto fermo nella sua vita, con quel passo, qualunque sarebbe stata la decisione dello staff direttivo. Ora aveva preso la sua decisione, l’aveva seguita e questo pensiero gli dava una sorta di senso di pace. Finalmente stava per risalire la china, per riprendere in mano le redini della sua vita.

John sospirò e sollevò la mano per portare, ancora una volta, la tazza alle labbra, ma il suo gesto fu interrotto dal bip del commlock. Non ebbe bisogno di aprire la comunicazione per sapere di chi si trattava. Si sporse quel tanto che gli bastava per posare la tazza e prendere lo strumento che aveva lasciato sul tavolino accanto al divano. Quindi lo puntò verso la porta e diede il comando di apertura. Il pannello, con un lieve rumore ovattato, rientrò nella parete e lasciò apparire la snella figura di Helen. La donna era visibilmente stanca, scossa, sfibrata. Il suo volto era acceso, i suoi occhi brillanti erano circondati da occhiaie profonde. Un prepotente moto di tenerezza assalì l’uomo che provò il forte impulso di alzarsi, andarle incontro e circondarla in un abbraccio protettivo, che la tenesse lontana da angosce e amarezze. Ma si sforzò di non muoversi. Lasciò che lei si sentisse libera di parlare o meno, di scegliere il momento adatto. Sollevò solo lo sguardo a incontrare quello di lei, lasciando che fossero i suoi occhi a esprimere ciò che provava, a circondarla con la con la tenerezza che, in quel momento, gli riempiva l’animo.

“Vieni avanti, Helen” le disse con voce stanca ma calda.

La donna avanzò, titubante, cercando le parole giuste per comunicargli l’esito della riunione che si era appena conclusa.

“Io”, cominciò, “volevo dirti…” avanzò fino a essergli di fronte, le mani che fino a un attimo prima erano abbandonate, stanche, lungo i fianchi, ora si cercavano e si stringevano, torturandosi a vicenda.

“Vieni a sederti, Helen” la interruppe l’uomo, poggiando una mano sul posto del divano accanto a sé, per invitarla a raggiungerlo. “Sembri molto stanca.”

“Prima lasciami finire, John” disse la donna, ansiosa. “E’ importante.”

“Va bene”, acconsentì Koenig. “Chi è il nuovo comandante di Alpha?” chiese. “Victor?”

“No.” Helen avanzò ancora di un passo verso di lui, sempre più agitata.

“Allora Paul?” provò ancora l’uomo.

Helen scosse il capo.

“No” disse. “Non c’è stata nessun’altra candidatura che la tua, John Koenig… Il comandante di Alpha non può essere nessun altro che tu” disse d’un fiato. “Noi…” fece per proseguire.

Ma John le porse una mano, tacitandola.

“Me lo racconterai dopo, Helen.” le disse. “Ora vieni solo accanto a me, per favore.”

Lei annuì, sollevata, con un sorriso lieve ma colmo di speranza dipinto sul viso e si affrettò ad affondare la sua mano in quella che l’uomo le porgeva, ricambiandone la stretta salda e immediata.

John l’attirò con gentilezza accanto a sé, senza lasciarle la mano neanche quando lei gli fu seduta a breve distanza, sul piccolo divano bianco. Non voleva parole, in quel momento, John Koenig. Solo ritrovare il suo mondo, le cose e le parsone che gli erano care, che non avrebbe potuto allontanare dal suo affetto neanche se avesse voluto. E non voleva, ora lo sapeva con certezza. Sorrise, con tenerezza e affetto, al volto ancora teso di Helen, ai suoi occhi che, attenti e in ansia, cercavano quelli di lui. Si sentiva molto stanco ma anche molto rilassato e cercò di comunicare questa sensazione anche alla donna. Sollevò l’altra mano, quella che non stringeva la mano di lei e le carezzò lievemente il viso, sfiorandole gli zigomi, i segni scuri sotto gli occhi.

“Sono un egoista a tenerti ancora qui, Helen” le disse, con un sorriso tenero. “Dovrei accompagnarti al tuo alloggio e mandarti a riposare.” Le sue dita si spostarono, leggere e gentili, sotto l’orecchio, lungo la linea del mento, mentre il pollice le carezzava delicatamente la guancia.

“Non ora, John” rispose la donna, con altrettanta tenerezza, andando a posare la sua mano su quella di lui che le sfiorava il viso. “Non ora”, sorrise. “Non potrei riposare in altro posto che qui… finalmente.”

John le sorrise, l’attirò con dolcezza a sé, guidandole il capo a posarsi sulla sua spalla, mentre la circondava con un braccio. Finalmente potevano rilassarsi e riposarsi, insieme, lasciando che quello fosse il punto di partenza, quello da cui cominciare per lasciarsi alle spalle il brutto periodo di incertezze e di buio che avevano vissuto. L’indomani avrebbero parlato, avrebbero chiarito tante altre cose. Ma ora l’unica cosa che voleva era riguadagnare il conforto della vicinanza di Helen e sentire il suo calore accanto a sé.

 

Fine
Ra
cconto © 2006 di Maria Conversano. Pubblicato con il consenso dell'autrice.